venerdì 14 agosto 2015

La lotta di classe e la Banca centrale di Pechino di Alfonso Gianni

La crescita dei salari e qualche miglioria nelle prestazioni lavorative sono il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rinascente lotta di classe in Cina e una qualche disponibilità ad allentare i cordoni delle borse - visti i margini esistenti - da parte delle classi dirigenti. In altre parole si aprono spazi di riformismo reale, che però la recente decisione della Banca centrale rimette fortemente in discussione
 Men­tre le miopi e ingorde élite euro­pee si acca­ni­scono con­tro la pagliuzza greca, la trave cinese è pene­trata nell’occhio della finanza mon­diale. Tre sva­lu­ta­zioni dello yuan stanno met­tendo in fibril­la­zione il mondo intero e le Borse vanno in pic­chiata. Solo l’Europa «bru­cia» circa 230 miliardi nello spa­zio di un mat­tino. Pra­ti­ca­mente i due terzi dell’intero debito greco. E non è finita.
Indub­bia­mente la mossa della Banca cen­trale cinese si iscrive nel capi­tolo delle «sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive», come giu­sta­mente scritto qui Pie­ranni. Pechino doveva rea­gire in qual­che modo al crollo del pro­prio export che a luglio ha matu­rato una fles­sione dell’8%. D’altro canto il ten­ta­tivo di svol­tare nelle poli­ti­che eco­no­mi­che, pun­tando sulla valo­riz­za­zione e il poten­zia­mento del mer­cato interno, era ed è obiet­tivo troppo ambi­zioso per potersi rea­liz­zare in breve tempo. Ma da qui a dire che è fal­lito, ce ne corre. Almeno per il momento ed in base ai dati dispo­ni­bili. Alcuni com­menti letti in que­ste ore pec­cano di una evi­dente sot­to­va­lu­ta­zione delle capa­cità pro­tei­formi del capi­ta­li­smo, di quello cinese in par­ti­co­lare. Troppo pre­sto per suo­nare le cam­pane a morto, anche se lo si vorrebbe.
La mossa cinese ha più moti­va­zioni. C’è innan­zi­tutto un fatto in con­tro­ten­denza al qua­dro mon­diale che va messo in evi­denza. In Cina si è venuta rea­liz­zando negli ultimi anni una cre­scita dei salari medi, come ha regi­strato anche la stampa eco­no­mica main­stream. Niente di ecce­zio­nale, visto che par­ti­vano da livelli molto bassi. Ma pur sem­pre un ele­mento signi­fi­ca­tivo, soprat­tutto per­ché non deriva solo da una mag­giore capa­cità nel pre­ve­nire e nel fron­teg­giare gli effetti della crisi mon­diale da parte delle classi diri­genti cinesi rispetto a quelle di altri paesi — basta pen­sare alla Unione euro­pea — ma soprat­tutto da una presa di coscienza da parte delle classi lavo­ra­trici cinesi nei set­tori manifatturieri.
Ovvero la cre­scita dei salari e qual­che miglio­ria nelle pre­sta­zioni lavo­ra­tive è il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rina­scente lotta di classe in Cina e una qual­che dispo­ni­bi­lità ad allen­tare i cor­doni delle borse — visti i mar­gini esi­stenti — da parte delle classi diri­genti. In altre parole si aprono spazi di rifor­mi­smo reale, che però la recente deci­sione della Banca cen­trale rimette for­te­mente in discussione.
Infatti l’aumento delle retri­bu­zioni è già suf­fi­ciente per intac­care la pro­ver­biale com­pe­ti­ti­vità delle merci cinesi, ma non ancora in grado di fare da volano alla domanda interna, ovvero all’incremento dei con­sumi. La crisi mon­diale impe­di­sce che que­sta venga sosti­tuita, senza inter­venti di tipo mone­ta­rio, dalla domanda estera. Nello stesso tempo le pre­vi­sioni sulla cre­scita quan­ti­ta­tiva cinese non sono otti­mali. Alcuni cen­tri di ana­lisi le sti­mano infe­riori per­sino di parec­chio a quelle uffi­ciali, tenendo conto dell’andamento dei con­sumi ener­ge­tici e della stessa pro­du­zione indu­striale. Lo stu­pore dei cinesi di fronte alle rea­zioni stiz­zite inter­na­zio­nali, ma non di tutti, non deriva solo dalla tra­di­zio­nale astuta dop­piezza orientale.
Non hanno torto quando affer­mano che non hanno fatto altro che quello che il resto del mondo capi­ta­li­stico chie­deva loro, ovvero aprirsi al mer­cato. L’obiettivo non è dun­que una gene­rica e con­fusa guerra valu­ta­ria — peral­tro già in corso con altri mezzi — quanto quello di rispon­dere posi­ti­va­mente alle con­di­zioni poste dallo stesso Fmi — che infatti ha gra­dito — per per­met­tere allo yuan di affian­care le altre monete impor­tanti nel paniere dei Diritti spe­ciali di pre­lievo (Sdr nell’acronimo inglese). Que­sto farebbe dello yuan una moneta di riserva glo­bale. Il che la ren­de­rebbe più sta­bile e ridur­rebbe il biso­gno di dete­nere riserve mas­sicce, libe­ra­liz­zan­done l’uso.
I primi a subire le con­se­guenze nega­tive della deci­sione cinese sono i paesi del sud est asia­tico, come il Viet­nam (mai amato, come è noto, dai cinesi) che ha prov­ve­duto anch’esso ad allar­gare la banda di oscil­la­zione della pro­pria moneta per reg­gere la con­cor­renza inter­na­zio­nale. Anche qui la mossa cinese ha una logica tutt’altro che impre­ve­di­bile. Vuole rispon­dere al ten­ta­tivo ame­ri­cano di strin­gerle attorno un cap­pio con il Tpp, l’accordo com­mer­ciale con i paesi del Paci­fico, che non a caso la esclude. La stessa mas­sic­cia immis­sione di liqui­dità (il quan­ti­ta­tive easing) da parte della Fed ha reso iper­com­pe­ti­tivo il dol­laro. Se di qual­cosa ci saremmo dovuti stu­pire è che prima o poi non si mani­fe­stasse una rea­zione cinese.
Ma chi rischia vera­mente grosso è come al solito la nostra Europa. Da un lato le merci cinesi diven­te­ranno più com­pe­ti­tive e pro­ba­bil­mente i cinesi spen­de­ranno meno da noi. Il tutto potrebbe tra­mu­tarsi per­sino in un cam­pa­nello d’allarme utile a smor­zare i toni trion­fa­li­stici della Ger­ma­nia, molto inte­res­sata al mer­cato orien­tale, ma ci ver­rebbe un’altra poli­tica a Ber­lino. La crisi sta cam­biando gli assetti del mondo. Anche l’eterogenesi dei fini gioca il suo ruolo. The Times They Are a-Changin’, anche se in una dire­zione ben diversa da quella auspi­cata da Bob Dylan più di 50 anni fa.

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