giovedì 22 ottobre 2015

La “cosa rossa” e il blocco delle amministrative di Claudio Bazzocchi


il-pensatore
Leggiamo che il tavolo della cosiddetta “Cosa rossa” troverebbe difficoltà a proseguire a causa del nodo delle amministrative e, quindi, delle alleanze. Ci sarebbe insomma una sorta di partito trasversale degli amministratori che resiste all’idea di rompere con il PD a livello locale.
Ora, che la questione delle alleanze e delle elezioni amministrative alle porte sia l’argomento di discussione di un tavolo che vuol dar vita a un nuovo partito della sinistra mi pare che dica alcune cose molto preoccupanti sulla natura dell’iniziativa. Infatti, non è preoccupante che si discuta e che ci si confronti, lo è perché si discute su cose di secondaria importanza.
Quando si decide di costituire un partito, infatti, prima dovrebbe venire il riferimento a una cultura politica condivisa su alcune questioni fondamentali: visione della società, forma-partito, collocazione del proprio paese nel Mediterraneo e quindi politica estera, come si interviene nel conflitto tra capitale e lavoro, crisi della democrazia e sue contraddizioni, euro ed Europa, egemonia dell’immaginario neoliberale e nuova capacità egemonica della sinistra (e qui si ritorna al primo punto sulla visione di lungo periodo).
Se si discute animatamente su alleanze ed elezioni, ciò significa che nessuno discute (magari animatamente!) sui punti fondamentali dell’identità politica. Peraltro, le alleanze si stringono sulla base di patti di programma. Non mi pare che si discuta nemmeno di programmi, cosa difficile se prima non si mettono in fila le questioni dirimenti che ho cercato di elencare prima. E qui il circolo diventa vizioso.
Ho parlato di “partito degli amministratori”. È un’espressione vecchia che risale ai tempi del PCI e che stava a indicare quell’ala cosiddetta riformista o moderata che richiamava il partito alla concretezza del governo contro chi ancora pensava a un’uscita dal capitalismo (anche se chi pensava a quell’uscita non pensava certo all’evento rivoluzionario traumatico ma a una strategia molecolare di avanzamento dei subalterni o di valorizzazione delle eccedenze che rimanevano fuori dal sistema industriale capitalistico). Sul partito degli amministratori c’è una pregevole letteratura sociologica che denunciò anche la sua progressiva autoreferenzialità. Importa qui però dire che all’interno di un grande partito di massa, radicato e strutturato, con organismi dirigenti veri a ogni livello, il confronto fra “amministratori” e “anticapitalisti” (permettetemi le etichette per semplificare) garantiva una dialettica di altissimo livello che rappresentò un arricchimento per quel partito, per i suoi dirigenti e suoi militanti.
Oggi, il “partito degli amministratori” non è uno dei due poli di una dialettica, ma perlopiù un gruppo di persone che ormai non risponde a nessun partito, dal momento che i partiti non esistono più se non formalmente, ed infatti va considerato come trasversale, legato dalla necessità di mantenere una posizione di governo, sia per ragioni di sopravvivenza per sé e per i propri clientes (che sono le meno nobili, anche se fra i clientes vi sono associazioni, cooperative sociali ecc..) sia per la convinzione che solo da un assessorato si possa difendere quanto rimane dello stato sociale.
Oggi, senza un’idea di mondo, senza una forza strutturata e radicata (per la quale ci vorrà molto tempo e pazienza oltre qualsiasi scadenza elettorale) non è possibile richiamare la dialettica tra riformisti che vogliono governare e “anticapitalisti” che vogliono uscire dal sistema (e ancora mi scuso per la semplificazione). All’interno del paradigma neoliberale e fuori da partiti forti, come ho cercato di spiegare sopra, non può esistere quella dialettica ed è vano richiamarla, come se ancora ci fosse il compromesso tra capitale e lavoro operante. Syriza non è riuscita nell’impresa di condizionare quel paradigma dalla posizione del governo nazionale, perché dovrebbe riuscirci una forza che si costituisce senza discussione, senza identità e con la fusione di gruppi dirigenti litigiosi preoccupati perlopiù della propria sorte e che pare abbiano come principale preoccupazione il governo locale di alcune grandi città?
Rimane allora fondamentale, a mio parere, la costruzione di un gruppo dirigente che accetti di misurarsi con il deserto e la pazienza di una ricostruzione di lunga lena e non abbia alcuna posizione da difendere. Non si tratta di rottamare, anzi, si tratta di chiedere ai compagni più anziani e più esperti di insegnare, chiedendo però loro di fare un passo indietro perché questo non è più il tempo di sterili categorie ormai datatissime.
Dardot e Laval hanno posto il problema ne “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità liberista” (DeriveApprodi, Roma 2013), spiegando chiaramente come oggi il governo neoliberale degli altri sia anche il governo di sé, come cioè l’immaginario occidentale sia pervaso dall’idea che si debba diventare imprenditori di se stessi per essere felici e sentirsi liberi. Il neoliberalismo è riuscito a fondere la creazione di un nuovo soggetto con il governo degli altri. Nel momento in cui il soggetto si costruisce, allo stesso tempo produce anche il governo degli altri. Pensiamo, per esempio, al fatto che ormai è assolutamente normale per lavoratori, manager e dirigenti della pubblica amministrazione, docenti e studenti partecipare a corsi di formazione in cui si insegnano i principi fondamentali della concorrenza, della valutazione, della gestione dei rapporti interpersonali come insieme di tecniche volte a trarre il massimo in termini economici da quei rapporti. A fronte di ciò non serve favoleggiare il ritorno al compromesso socialdemocratico perché la sinistra deve fronteggiare invece una nuova soggettività e una nuova ragione del mondo che è tale non solo perché le leggi dell’economia sono considerate naturali, ma anche perché il neoliberalismo è un’idea di uomo che si fa imprenditore di se stesso (e anche il lavoratore salariato lo è nel momento in cui passa gran parte del suo tempo libero a calcolare quale sia la migliore assicurazione auto, il provider telefonico più conveniente o la scuola che un domani potrà garantire più reddito per i propri figli, o si sente gratificato dall’essere inserito in un team di lavoro all’interno dell’azienda in cui lavora). Non siamo allora in presenza di un capitalismo più puro e senza regole da limitare di nuovo con controlli più stringenti (magari con più diritti per tutti come vorrebbe Rodotà). Il problema, infatti, considerando oltretutto che non è vero che lo Stato sia assente nel neoliberalismo, ma è anzi uno dei soggetti fondamentali della sua costruzione (e quando compete, per esempio, tramite la leva fiscale per attrarre capitali e farsi Stato in concorrenza con altri Stati è un soggetto assolutamente forte), è quello di come uscire dalla razionalità neoliberale che ha mutato nel profondo tutti noi, anche quelli più di sinistra.
Si tratta allora di proporre forme di soggettività alternative a quelle dominanti (e quanto ci insegnò su questo a suo tempo Claudio Napoleoni e quanto avrebbe ancora da insegnarci), grazie anche e soprattutto a un soggetto politico forte che sia in grado di elaborare una nuova visione del mondo, dell’uomo e della donna, del rapporto tra sé e gli altri, fra sé e le cose e quindi anche una critica della tecnica. Per fare questo, abbiamo bisogno di un nuovo gruppo dirigente che abbia la passione per lo specifico umano e per il pensiero. Abbiamo bisogno di cercare ancora e di pensare in grande. Solo un grande pensiero, peraltro, produce il riformismo, e non viceversa…

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