sabato 17 ottobre 2015

Quei falsi miti sulla bassa produttività italiana

Davide BonazziUna Nota diffusa dal Centro studi di Confindustria (CsC) denuncia che i salari reali italiani sono cresciuti, dal 2000 fino al 2014, più della produttività del lavoro (28% contro un misero 10,9%), con l’ovvia conseguenza di spostare quote di reddito a favore della componente lavoro (che include i contributi sociali) e a scapito dei profitti, con effetti negativi su investimenti e competitività internazionale. Il presidente Squinzi chiede che sia dato più spazio alla contrattazione aziendale per legare le retribuzioni alla produttività. La ricetta che egli propone non è nuova, ed è fondata sul pregiudizio che lo spaventoso arretramento nella capacità di produrre reddito che il nostro paese subisce da un ventennio, sia dovuto all’eccessivo costo del lavoro e alla scarsa flessibilità del mercato del lavoro, ostacolata dai sindacati.
Questa tesi, se si guarda alla storia economica (recente) del nostro paese, non è corroborata dai dati. I quali suggeriscono piuttosto che negli anni in cui la forza lavoro era maggiormente sindacalizzata (anni ’70-’80) e il mercato del lavoro più rigido[1], la produttività del lavoro (segnatamente nella manifattura, settore in cui è più facile misurarla) cresceva più che in Francia, Germania, Stati Uniti [2]. Uno dei più grandi economisti italiani contemporanei, Paolo Sylos Labini (Torniamo ai classici, Laterza, 2004, pp. 47 – 51), spiegava questo fenomeno attraverso il cosiddetto “Effetto Ricardo”: sindacati forti portano ad un aumento del costo del lavoro ( e una certa rigidità nei licenziamenti), che incentiva le imprese a sostituire lavoro con macchinari, che incorporano il progresso tecnologico e spingono all’insù la produttività del lavoro. Al contrario, sindacati indeboliti, proliferazione di contratti atipici, rimozione dei vincoli giuridici al licenziamento e afflussi di manodopera immigrata sottopagata rallentano l’accumulazione di capitale innovativo e frenano gli incrementi di produttività, come è accaduto in Italia nel corso degli anni Duemila.

Non è tutto. Per gli economisti mainstream che informano l’opinione pubblica, Il declino della produttività del lavoro italiana va addebitata ai seguenti fattori, tutti riguardanti il lato dell’”offerta”: individui inoccupabili e scansafatiche, bassa spesa in R&S, burocrazia elefantiaca, tassazione asfissiante, corruzione, giustizia civile lumaca, scarsa cultura imprenditoriale, etc).  Al contrario, un importante filone della letteratura economica – la tradizione classico-keynesiana, che va da Adam Smith a Nicholas Kaldor e Paolo Sylos Labini – ci ha mostrato che è la crescita del volume della produzione, che a sua volta dipende dalla domanda aggregata, che stimola gli aumenti dell’output per ora lavorata. In questa visione, la produttività del lavoro italiana è stagnante perché è insufficiente la domanda aggregata. E qui torniamo ai rilievi mossi da Confindustria: se le imprese non fanno margini, come fanno ad investire? Senza profitti, non possono ripartire gli investimenti, dice la saggezza convenzionale. Ma i profitti, in un’ottica macroeconomia, dipendono anch’essi dalla domanda aggregata (Kalecki,1954): interna (deficit pubblico, consumi e investimenti dei capitalisti) ed estera (esportazioni nette). In Italia, dagli anni Novanta, si è deciso di aggredire lo stock di debito pubblico a colpi di avanzi primari (complessivamente, circa 700 miliardi tra maggiori entrate e minori spese, al netto degli interessi), che hanno sottratto domanda interna all’economia, con il risultato di deprimere le spese delle famiglie e quindi gli investimenti delle imprese. In più, l’adesione acritica e frettolosa all’Unione monetaria europea ha fatto perdere quote di mercato alle imprese italiane, spostando il baricentro dell’Europa industriale nelle regioni centro-orientali: ne hanno risentito le esportazioni nette.
Il ragionamento finora condotto ci porta a conclusioni affatto diverse rispetto a quelle di Confindustria: se si vuole incrementare la produttività del lavoro (e i profitti delle imprese) deve mutare in modo profondo il quadro macroeconomico. Una redistribuzione del reddito favorevole alle fasce di reddito medio-basse, un piano di investimenti pubblici finanziati in deficit (sfruttando i bassi tassi d’interesse, regalo del Quantitative Easing di Draghi), la costruzione di un sistema monetario europeo ispirato ai principi cooperativi e anti laissez-faire del Piano Keynes di Bretton Woods sono passaggi non più rinviabili.
Federico Stoppa

Note:
[1]  All’inizio degli anni Ottanta, gli iscritti al sindacato erano pari, in Italia, al 49,6% del totale degli occupati contro il 34, 9% della Germania (Bohlto, 2011, p.33). Fino a metà degli anni Novanta, l’indicatore Ocse che misura la rigidità nella protezione legislativa del posto di lavoro registrava valori più elevati in Italia rispetto a Francia e Germania; ora le posizioni si sono invertite (Hassan e Ottaviano, 2011, fig.4)
[2] Hassan e Ottaviano, 2011, fig. 2

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