giovedì 15 ottobre 2015

Sinistra, movimenti e guerre in Medio Oriente

di GIUSEPPE ACCONCIA.
Con i raid russi in Siria la strisciante divisione tra una parte della sinistra, vicina ai movimenti sociali che hanno attraversato il Medio Oriente dal 2011 in poi, e l’altra, che li ha criticati e sminuiti, finalmente ha chiarito la questione di fondo che alimenta lo scontro politico. Perché una parte della sinistra considera come sinonimi essere anti-Nato e pro-Putin?
Lo scontro tra queste anime della sinistra è accesissimo e radicato. Viene spesso banalizzato nella discussione corrente. Invece racchiude questioni di primaria importanza. Quale giudizio dà la sinistra dei movimenti? E ovviamente delle loro alleanze geopolitiche?
 La sinistra, le masse e il neo-nasserismo
Un esempio molto convincente di quanto la sinistra possa assumere una posizione anti-movimentista si è concretizzato con il colpo di stato in Egitto del 3 luglio 2013. In quel caso, alcuni partiti e intellettuali della sinistra egiziana, e non solo, si sono schierati a favore del generale Abdel Fattah al-Sisi. Secondo loro, il ritorno dei militari, e ancora di più, il neo-nasserismo di al-Sisi, sono compatibili con la sinistra più dell’islamismo politico.
Questa visione può inizialmente sembrare forzata ma non lo è. I Fratelli musulmani egiziani, ma anche in altri paesi, si sono dimostrati davvero incapaci di rappresentare gli interessi delle classi disagiate, rispetto alle pressanti richieste che dal basso venivano per una vera rivoluzione sociale. Non solo, l’islamismo politico ha forzatamente monopolizzato il movimento di piazza, annullando, neppure co-optando, le richieste che venivano da sinistra. E così, secondo questa visione neo-nasserista, le necessità sociali di poveri e diseredati sarebbero soddisfatte meglio da militari o autocrati. In altre parole, Al-Sisi e Putin, con il loro capitalismo di stato (grandi opere, gasdotti, estensione del Canale di Suez, ecc.), potrebbero fare di più per le masse dell’islamismo politico che ha saputo, nel poco e forse inesistente tempo (questo non vale per la Turchia) in cui ha governato, solo riprodurre politiche conservatrici e neo-liberiste.
Questo ha a che fare con le manifestazioni di piazza del 2011 quando la stessa sinistra che ora inneggia a Putin ha visto di cattivo occhio le proteste giovanili, come se fossero sostenute da un manipolo di giovani sprovveduti, appoggiati dagli Stati Uniti. Forse in parte questo può anche corrispondere ad una iniziale verità in riferimento ai movimenti siriano e libico, di sicuro non vale né per le proteste di piazza Tahrir, Tunisi e neppure per le esigenze sociali della sinistra turca e curda.
 Usa e islamisti: una luna di miele finita male
Se questa sovrapposizione tra movimenti sociali e islamismo politico non piace, e forse a ragione, a una parte della sinistra, meno che mai può piacere il velato sostegno che inizialmente Washington ha assicurato a un possibile passaggio di consegne dai vecchi regimi a una difficile transizione democratica, come preannunciato da Obama in un discorso all’Università del Cairo nel 2009. Il solo fatto che in Egitto per la prima volta nella storia si sono potuti contare i voti e in teoria i Fratelli musulmani avrebbero potuto governare (forse non lo hanno mai fatto davvero), qualora avessero vinto, è già un cambiamento.
Questa alleanza involontaria tra Usa e islamismo politico si è manifestata e viene criticata in tanti altri contesti. Per esempio in Siria, la centralità della Fratellanza musulmana siriana all’interno delle opposizioni e il sostegno finanziario che queste hanno avuto da parte degli Usa in funzione anti-Assad va inquadrata in questo schema.
Anche l’appoggio del Partito democratico unito (Pyd) in Siria da parte della coalizione anti-Isis rientra nella strategia Usa, ma questo punto la parte della sinistra che diremmo pro-Putin non vuole enfatizzarlo. E forse anche a ragione sia perché i raid della coalizione non hanno fatto abbastanza per sostenere la guerriglia curda sia perché il partito del presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Akp) ha rovinato tutto con i suoi aggressivi bombardamenti anti-Pkk (di fatto dimostrando che sinistra e islamismo politico sono quasi intrinsecamente incompatibili) e – infine – perché i veri alleati di Washington sono e saranno sempre i peshmerga curdi iracheni, come è stato ai tempi della guerra in Iraq (2003), che da buoni seguaci di Massoud Barzani sono neo-liberisti di destra.
Non solo, gli incontri che gli ambasciatori come Chris Stevens (che per questo avrebbe pagato con la vita le mosse diplomatiche Usa) in Libia e Anne Patterson in Egitto hanno avuto tra il 2011 e il 2012 con gli islamisti moderati, che a Tripoli hanno legami più ambigui con il terrorismo che al Cairo, hanno corroborato questa ipotesi.
E poi la sinistra mai potrà perdonare gli attacchi della Nato del 2011 in Libia che hanno sì avvicinato la fine del colonnello Muammar Gheddafi ma hanno anche dilaniato il paese che ora è infestato da miliziani senza scrupoli, contrabbandieri e terroristi. In ultima analisi, la politica Usa in Medio Oriente è stata fallimentare, appiattita sulle alleanze tattiche dei sauditi che caricano e scaricano i Fratelli musulmani in base al contesto e agli interessi finanziari del momento: strategia che ha finito per alimentare il terrorismo jihadista di ogni risma.
 Sisi-Haftar-Assad e Putin non sono alternativi alla Nato
Tutto questo non dovrebbe bastare per fornire un pretesto alla sinistra per applaudire ai raid russi in Medio Oriente. Invece per alcuni intellettuali e attivisti di sinistra puntare sull’anti-americanismo è sufficiente. Lo sanno bene gli autocrati in Siria, Libia ed Egitto. Per costruire il loro curriculum di sinistra al-Sisi, il suo epigono Khalifa Haftar, e il recidivo Bashar al-Assad, si sono mostrati senza se e senza ma come i primi tra i pro-Putin. Non solo hanno rispolverato credenziali anti-Washington di tutto rispetto ma fanno anche ricorso a un populismo che include un certo anti-americanismo.
Non bisogna tuttavia mai dimenticare che gli Stati Uniti hanno ripristinato gli aiuti militari al Cairo dopo un breve periodo di congelamento; al-Sisi e il segretario di Stato Usa, John Kerry, si sono incontrati svariate volte e i due paesi non potrebbero mai essere dei veri nemici per questioni strategiche e tattiche, inclusa la problematica gestione del Sinai che ormai il Cairo ha demandato al suo alleato di ferro israeliano.
L’accordo tra al-Sisi e il premier israeliano Benjamin Netanyahu (manifestatosi con il prolungamento dei colloqui di pace per la soluzione dell’operazione Margine Protettivo nel 2013, a causa delle posizioni smaccatamente anti-Hamas del Cairo), insieme agli incontri tra Putin e il suo omologo israeliano, da soli dovrebbero bastare per raffreddare gli animi della sinistra «putiniana».
Non solo, la debolezza di Haftar che non controlla che una parte irrilevante dell’esercito libico, ingigantita dai farraginosi colloqui di pace in Marocco, e il sostegno indiscusso che il parlamentino di Tobruk ha da parte di Egitto e Arabia Saudita sarebbe una seconda buona ragione per calmare gli entusiasmi.
Ma di certo la principale questione per cui non è possibile considerare sinonimi l’opposizione ai bombardamenti della Nato in Libia e il sostegno ai raid in Siria di Putin è che per definizione questi ultimi non sono fatti per altra ragione che prolungare lo status quo. Assad, Haftar e Sisi non possono permettersi di sradicare lo Stato islamico perché rappresenta la primaria ragione della loro esistenza. La minaccia del terrorismo è per loro l’unica alternativa possibile alla mancanza di legittimità democratica. Questi raid potranno solo bilanciare i rapporti sul campo tra opposizioni siriane moderate e radicali, da una parte, e forze filo-governative, dall’altra, come in verità è avvenuto anche con i bombardamenti della coalizione internazionale anti-Isis che hanno finito per bilanciare i rapporti di forza sul campo tra combattenti curdi (Ypg-Ypj) e jihadisti, come ci hanno confermato direttamente a Tel Abyad. Non solo, questa impostazione ha determinato una sostanziale sovrapposizione tra interessi di Mosca e Washington in Medio Oriente, concretizzatasi con la firma dell’accordo sul nucleare con l’Iran e gli attacchi russi in Siria, che di fatto hanno il placet statunitense.
Una sinistra anti-capitalista, vicina alle masse e rivoluzionaria, nel vero senso del termine, non può confondere l’antimperialismo con il sostegno per il presidente russo Vladimir Putin. Se una parte della sinistra si sente rappresentata dall’anti-americanismo e dall’opposizione all’Alleanza atlantica di Assad, Haftar, Sisi e Putin questo è segno di una profonda crisi ideologica e politica da parte di una generazione che non vede l’alternativa dei movimenti che fioriscono in tutto il mondo. Dal sindacalismo tunisino, ai movimenti operai egiziani, dalla sinistra filo-curda del Partito democratico dei Popoli (Hdp) in Turchia all’autonomia democratica di Abdullah Ocalan, messa in pratica in Rojava: le rivolte del 2011 non hanno solo aperto il vaso di pandora dell’islamismo politico in Medio Oriente ma anche dei movimenti di sinistra. In ultima analisi, questo atteggiamento di sovrapposizione tra la critica della strategia dell’Alleanza atlantica in Medio Oriente e l’interventismo russo rende la sinistra europea che ne è affascinata non meno suggestionabile, frammentata, confusa, debole e fragile di una parte delle sinistre alleate con i regimi al potere in Medio Oriente.

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