venerdì 16 ottobre 2015

Strategia di potere di Alfonso Gianni, Il Manifesto

Una "legge di fiducia" che Bruxelles deve approvare per forza
Con la legge di sta­bi­lità, il governo Renzi vuole varare un’operazione ambi­ziosa. Non sot­to­va­lu­tia­mola. Da un lato si tratta di una legge dal chiaro sapore elet­to­rale. Una lunga cam­pa­gna elet­to­rale, la cui prima tappa è costi­tuita dalle ammi­ni­stra­tive della pros­sima pri­ma­vera in quasi tutte le città più impor­tanti del paese. Vere e pro­prie mid­term elec­tions in salsa ita­liana. Appun­ta­mento dagli esiti non scon­tati per Renzi, visti i poco sod­di­sfa­centi risul­tati in pre­ce­denti ele­zioni locali. A dimo­stra­zione che la distru­zione dei corpi inter­medi, asse stra­te­gico dell’azione ren­ziana, che comin­cia dalla liqui­da­zione del suo stesso par­tito, ha degli effetti col­la­te­rali inde­si­de­rati, quali la man­canza di una classe diri­gente dif­fusa e fedele.
Dall’altro lato la mano­vra eco­no­mica va al di là del puro ritorno elet­to­rale. Vuole con­so­li­dare un blocco di potere arti­co­lato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rap­pre­sen­tante poli­tico, anzi il domi­nus. Nello stesso tempo per Renzi è neces­sa­rio aggi­rare i paletti posti da Bru­xel­les. I cen­sori euro­pei hanno già mostrato i denti a Rajoy. E’ da vedere quindi quale bene­vo­lenza otterrà Renzi dai pro­pri padroni e sodali, visto che il suo governo ambi­sce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle elite eco­no­mi­che e poli­ti­che europee.
Da qui la cen­tra­lità della cosid­detta riforma fiscale, defi­nita con la con­sueta mode­stia una «rivo­lu­zione coper­ni­cana». A quanto rife­ri­sce la stessa Repub­blica, non certo un organo anti­go­ver­na­tivo, i pro­prie­tari di 75mila case di lusso e palazzi, ne trar­ranno ampi bene­fici, almeno 2800 euro in media a testa. Non importa se a farne le spese sarà la Sanità o altri isti­tuti dello stato sociale. Un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petro­lini: quando biso­gna pren­dere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il con­tra­rio, ovvero si con­ce­dono gene­rosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ric­chi, per­ché sono meno e hanno più potere.
Per que­sto la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria defi­ni­zione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella ber­lu­sco­niana. Il vec­chio lea­der di Arcore almeno ci met­teva un po’ di popu­li­smo e par­lava di una seconda fase dedi­cata a l’alleggerimento della pres­sione fiscale sulle per­sone fisi­che. Invece Renzi pre­vede che il secondo step deve riguar­dare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qual­che incom­pren­sione, si riac­cende di amore verso il governo. Con­for­tato anche dai pro­po­siti del lea­der di Rignano di inter­ve­nire di auto­rità sullo svuo­ta­mento della rap­pre­sen­tanza sin­da­cale e sulla liqui­da­zione del con­tratto col­let­tivo nazio­nale, usando come piede di porco l’innocente sala­rio minimo ora­rio legale, ancora da definire.
Qui si scende negli inferi del dia­bo­lico. Il taglio dell’Ires ver­rebbe con­di­zio­nato al via libera della Ue sulla fles­si­bi­lità per i costi dell’ondata migra­to­ria. Ovvero i migranti e i pro­fu­ghi, quelli che soprav­vi­vono alla guerra per terra e per mare in atto con­tro di loro, ver­reb­bero usati come merce di scam­bio per ridurre le impo­ste sul red­dito d’impresa. Ma un occhio di riguardo biso­gna pur tenerlo anche per gli eva­sori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbu­care l’innalzamento della quota di con­tante da mille a tre­mila euro per ogni sin­golo paga­mento, in modo da ren­derne impos­si­bile la tracciabilità.
Renzi vuole durare. Per farlo, dopo la distru­zione siste­ma­tica dei corpi inter­medi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con col­lanti tenaci. Vuole e deve risol­vere la dico­to­mia di cui par­lava Niklas Luh­mann, su cui forse gio­ve­rebbe tor­nare a riflet­tere per capire le derive del pre­sente. Quella tra potere e com­ples­sità sociale. La seconda viene com­pressa e stroz­zata dalle con­tro­ri­forme costi­tu­zio­nali, isti­tu­zio­nali e elet­to­rali in atto (che spe­riamo di potere sman­tel­lare con gli oppor­tuni refe­ren­dum). Il primo va al di là di quel «mezzo di comu­ni­ca­zione», di quel «sot­to­si­stema» auto­no­miz­zato di cui par­lava Luh­mann nella sua pole­mica con Haber­mas. In quanto arti­co­la­zione di un potere supe­riore, quello espresso dagli organi a-democratici della Ue, diventa stru­mento di disar­ti­co­la­zione di ogni poten­ziale schie­ra­mento sociale anta­go­ni­sta e con­tem­po­ra­nea­mente di inclusione/corruzione di strati e set­tori sociali utili a pun­tel­lare un sistema che non sop­porta la dua­lità sociale attiva. Cioè il conflitto.
Una "legge di fiducia" che Bruxelles deve approvare per forza
di Claudio Conti, Contropiano.org
Una "legge di fiducia" che Bruxelles deve approvare per forza
Il giudizio macroeconomico è unanime ed anche rispondente al merito: le legge di stabilità (addirittura definita “di fiducia” da Renzi, nel doppio senso esplicito del voto parlamentare senza discussione e dell'intenzione di raccontare al paese una favola ottimistica) è moderatamente espansiva, dopo anni di soli tagli.
Ci sono anche questi, ci mancherebbe, ma un po' meno (5,8 miliardi, di cui due a carica della sola sanità) del previsto solo due mesi fa nel Def (10 miliardi). La lista dei contenuti è lunga e non ve la proporremo tutta per ovvii motivi. Il dato fondamentale è infatti politico, non tecnico-finanziario.
Com'è possibile che un governo di destra, anche e soprattutto sul piano economico-sociale, vari una manovra moderatamente espansiva, quasi completamente in deficit (27-30 miliardi), senza troppi timori di incorrere nelle bastonate dell'Unione Europea?
La ragione interna, nazionale, è quasi esplicita: a primavera si vota e i sondaggi “veri” danno il pd in caduta libera, travolto non solo dagli scandali e dal cinismo con cui si è sbarazzato del fedele ma bislacco Ignazio Marino, oppure per la dinvoltura anticostituzionale che ha fatto del pitreista Verdini un “padre nobile costituente”, ma soprattutto dalla politica economica seguita finora (Jobs act, pensioni, scuola, diritto di sciopero, diritti dei lavoratori, ecc), che ha approfondito la caduta dei redditi già bassi mentre ha assicurato forti spazi di profitto per le imprese.
E bisogna dire che anche la nuova finanziaria insiste sul privilegiare esclusivamente le imprese, non concedendo quasi nulla al lavoro (basta guardare alle risorse stanziate per rinnovare i contratti del pubblico impiego: 300 milioni, in pratica 5 euro netti al mese). Mentre semina pillole di favoritismo interclassista (l'abolizione della Tasi sulla prima casa, che per gli immobili di tipo popolare può valere un centinaio di euro o poco più, mentre per quelli di lusso si arriva tranquillamente vicino ai 3.000), difficile persino da decostruire analiticamente.
Ma lo sforzo di stimolare l'economia traspare abbastanza evidente, anche se totalmente delegato all'iniziativa e alle scelte delle imprese private, senza alcuna idea di politica industriale. Anzi, la privatizzazione in corso dei pochi pezzi pregiati ancora controllati dal pubblico (il 34% di Poste Italiane, mentre in via XX Settembre si sta già studiando la collocazione in borsa anche di Ferrovie dello Stato) sta ad indicare che il “pubblico” va verso la completa sparizione.
Una scelta suicida, diciamo subito, perché la crisi è tutt'altro che finita, specie in Europa; e ancora non si possono fa sentire i contraccolpi macroeconomici dello scandalo Volkswagen sull'insieme delle filiere produttive continentali che hanno quasi sempre il loro vertice nelle multinazionali tedesche.
Ma domanda resta: com'è possibile “spendere e spandere” senza che l'Unione Europea usi la clava? Perché Renzi non è Syriza 1.0 (quella tra gennaio e il 13 luglio), e deve poter avere una chance di passare indenne una tornata elettorale molto ma molto rischiosa. Non per caso il guitto di Pontassieve va strombazzando in giro di avere già in tasca l'ok di Merkel e Juncker, il presidente della Commissione che deve analizzare il testo inviato ieri sera a Bruxellles.
Non è comunque un sì scontato, sia per l'entità della manovra che per la sua composizione. 16 dei 27 miliardi andranno soltanto a disattivare il previsto avvio della “clausole di salvaguardia” il prossimo 30 giugno, con l'aumento dell'Iva al 24% nell'aliquota principale (dal 10 al 12% per i prodotti “agevolati”). E molti di più ne andrebbero trovati nei prossimi anni per disinnescare le altre scadenza similari (Iva al 25 e al 13% nel 2017, e al 25,5% nel 2018). Insomma, soldi che non vanno all'economia reale, ma servono solo a tamponare un buco finanziario che sarebbe provocato da minori entrate previste. Al tempo stesso, però, evitare l'aumento ulteriore dell'Iva è un modo per non deprimere ancor di più l'economia reale, con un aumento della tassazione che oltretutto contraddirrebbe platealmente la scelta “strategica” della riduzione delle tasse.
Rimae soltanto un'incertezza, relativa al cosiddetto “sconto migranti” per i paesi che debbono affrontare il grosso degli ingressi. Uno 0,2% in più nel rapporto deficit-Pil, che equivale a circa 3 miliardi, e che potrebbe fa levitare la manovra fino a 30 miliardi. L'utilizzo di questo “tesoretto” eventuale è già deciso: la diminuzione dell'Ires, una tassa che pagano le imprese, ovviamente.
Il tutto si regge su un paio di speranze, non previsioni scientifiche. In primo luogo che la “crescita” possa subire un qualche accelerazione (se sale il Pil, diminuisce in proporzione il debito pubblico, ed anche il deficit). Speranza che, dai dati provenienti dal resto d'Europa e del mondo, appare piuttosto inconsistente. In secondo luogo, sulla speranza che le imprese facciano la loro parte investendo, invece di continuare a riversare i profitti nel circuito finanziario. Il che rimanda alla prima speranza, in un loop senza soluzione.
Resta dunque solo la relativa certyezza di una maggiore “flessibilità” concessa al governo Renzi dall'Unione Europea per fini puramente politico-elettorali. Anche la Ue e la Germania, insomma, si rendono conto che devono continuare ad avere in Italia un loro uomo fidato, quindi debbono sostenerlo anche concedendo qualcosa in più rispetto alle “regole”. In fondo, tra Jobs Act, riforme costituzionali autoritarie, scuola, pensioni, contrattazione, demolizione del sindacato, ecc, è un alleato che ha dimostrato di saper fare il lavoro sporco meglio di altri.
Se qualcuno crede ancora al fatto che queste “regole” obbediscano a una logica economica, anziché solo politica, è servito

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