domenica 29 novembre 2015

L’ipotesi Paolo Vinti è: fronte popolare cosmico di Wu Ming


Con emozione... Con emozione altissima

[Un giorno di amore e politica, Un giorno di sentimento e socialità, Un giorno di emozione ed ideologia. Sono i tre libri che compongono la trilogia di Paul Beathens aka Paolo Vinti (1960-2010) Con emozione… con emozione altissima, ora raccolta in un unico volume. L’hanno presentata a Perugia, il 9 novembre scorso, Maurizio Terzetti e Wu Ming 1. Quest’ultimo è autore della prefazione al libro, che vi proponiamo integralmente. Come afferma WM1 in quest’intervista, Paolo Vinti merita di essere conosciuto al di fuori della sua Perugia. Stiamo parlando di un “santo folle”, di un poeta di altissimo livello, e di un filosofo marxista di strada il cui pensiero presenta tratti parecchio originali. A quanto ci consta, è l’unico che abbia prodotto una sintesi operativa tra la dialettica hegeliana e la critica radicale di tale dialettica espressa dal pensiero post-strutturalista francese degli anni Settanta (Deleuze & Guattari, per capirci), senza usare tale critica come mera antitesi da negare, come invece sembra fare Fredric Jameson. Lo sappiamo, pare ‘na supercazzola, ma se leggete la prefazione  con gli esempi si capisce.
Come sempre, invitiamo alla visione del documentario Film astratto rosso del Collettivo Ipanema, che ritrae Paolo nel 2007, all’apice della sua “stagione delle declamazioni”.
Il libro non ha ancora una distribuzione nazionale, ma per averlo potete scrivere all’Associazione Paolo Vinti]

L’ipotesi Paolo Vinti è: la vita di un filosofo e poeta. Sovente si usa l’attributo «filosofo» tanto per dire, esagerando, infiorettando, leccando posteriori. La patente di filosofo è consegnata con sventatezza: nel corso degli anni si sono sentite espressioni come «il filosofo Rocco Buttiglione», e chiunque scriva di filosofia è autorizzato a dirsi filosofo. Chi scrive di ciclismo manca di essere un ciclista, recensire una mostra manca di rendere pittori, ma per la filosofia è diverso: todos caballeros, tutti filosofi.
Paolo, invece, è filosofo per davvero. Leggendolo e ascoltandolo con attenzione, risultano evidenti una conoscenza profonda e un uso innovativo della filosofia continentale, della dialettica e del pensiero francese degli anni Sessanta-Settanta. Paolo manca di indulgere in quello che in inglese viene chiamato «name dropping», gettar lì il nome di questo o quel grande pensatore per far capire che lo si è letto e lo si conosce a menadito. Tuttavia è chiaro, seguendo i concetti che usa, che in lui trova corpo e sintesi una molteplicità di percorsi teorici. La sua elaborazione è interna al filone marxista, ma aperta ad altre visioni e pulsioni, purché permettano di immaginare il comunismo come liberazione degli umani e realizzazione delle potenzialità della specie.
L’ipotesi Paolo Vinti è: il corpo di un filosofo di strada. Come Socrate, che stava nell’agorà, nella piazza, nelle vie ad interrogare la gente. Come Diogene, che viveva in una botte e girava di giorno con una lanterna accesa, e quando gli chiedevano «Ma che fai?» rispondeva: «Cerco l’uomo.» Paolo fa filosofia con le parole, ma soprattutto la fa con la parola incarnata, con il corpo, con l’esempio del suo modo di vivere, tutti i giorni. Vivere per le strade.
L’ipotesi Paolo Vinti è: un poeta che usa la lingua a misura di precise, precisissime strategie testuali e corporee. Chi dedica a Paolo le pagine che state leggendo esercita il mestiere di scrittore. Uno scrittore sa riconoscere uno scrittore. Il linguaggio è un cantiere sempre aperto, dove lo scrittore passa le giornate, in bilico sulle impalcature del senso con in mano il secchio e la cazzuola, e in testa un cappello di carta di giornale. Paolo lavora in quel cantiere, e programmaticamente si adopera a forzare il linguaggio, ritmi, risonanze, timbri, accento strascicato, tutto il corpo che trema nell’emettere il suono, per schiudere l’immaginazione di chi ascolta.
Amputazione – oggettivazione – ripetizione – derivazione
L’ipotesi Paolo Vinti è: quattro grandi strategie poetiche, che si è indicato coi nomi «Amputazione», «Oggettivazione», «Ripetizione» e «Derivazione». Paolo le porta avanti sempre insieme, agganciate l’una all’altra, con coerenza e autodisciplina, per ravvivare ciascuna parola e comunicare una filosofia dell’incontro e della veggenza.
Amputazione. Consiste nell’eliminare dal discorso alcune parole e sintagmi. Si tratta di un’azione irrevocabile: una volta tagliate dalla prosa e dai versi alcune espressioni, esse mancheranno di farvi ritorno.
Oggettivazione. E’ un termine usato da Paolo stesso. Va sempre a braccetto con l’amputazione. Consiste nel ripulire il discorso da qualunque manifestazione di narcisismo e culto dell’io. Paolo evita sempre di dire «io». Per impedirsi di usare questo pronome, ricorre a sorprendenti perifrasi e circonlocuzioni.
Ripetizione. E’ la strategia più evidente: Paolo usa di continuo parole e sintagmi, tanto che alcune si sono conficcate nei nostri cervelli e quando ci capita di usarle, ricordiamo il modo in cui le usava lui. Sentire il superlativo «altissimo» richiama subito alla mente «Con emozione altissima».
Derivazione. In grammatica, è il procedimento con cui si creano parole nuove partendo da quelle esistenti, aggiungendo prefissi o suffissi. Da un aggettivo (ad esempio «bello»), si possono ottenere un sostantivo («bellezza») e un verbo («abbellire»), oppure varianti dello stesso aggettivo («bellino», «belloccio», «bellissimo», «strabello»). Paolo va alla deriva nelle derivazioni, incolla e stratifica suffissi in modo da creare parole familiari e al tempo stesso rese nuove, parole che scuotono, creano un micro-shock mentre le sentiamo.
Amputazione: mancare di dire no
L’ipotesi Paolo Vinti è: affermare sempre.
Evitare le negazioni. Mettere al bando i vari «no», «non», «mai» e qualunque parola serva a negare. Mancheremmo di trovare questa parole negli scritti e nelle declamazioni di Paolo. Pur di evitare il “non”, Paolo compie incredibili giravolte, ad esempio traduce il celebre slogan della guerra civile spagnola «No pasaran» con «Mancheranno di passare». La frase negativa è divenuta assertiva, perché il mancare è comunque un agire, è un’azione che si compie, sebbene vada a vuoto. Analogamente, lo slogan degli anni Settanta «La salute non si paga» diviene: «La salute si manca di pagare». Entrambi gli esempi sono presi dalla poesia «Il presente». Addirittura, Paolo trasforma l’espressione «eliminare gli ostacoli», che diviene un «generare eliminazione di ostacoli», e si tratta di un costruire, di un creare, anche se si crea l’eliminazione di qualcosa. Per generare eliminazione di ostacoli ci si deve comunque porre in modo attivo, assertivo, evitando la negazione. L’esempio è tratto da un’altra poesia, «La verità».
Nel mondo di Paul Beathens alias Paolo Vinti esistono solo forze, tutto è attivo e operante.
La cosa che più si avvicina – mancando di esserlo per un pelo – a una negazione la si è trovata, con qualche fatica, in uno scritto intitolato «Il doppio governo», dove si parla di «neutralizzare le forze reazionarie», un proposito che riteniamo inappuntabile. Ma «neutralizzare» significa «rendere neutrale», ovvero togliere dall’agone, spostare dal gioco delle forze in lotta. Significa generare la neutralità delle forze che oggi, nella lotta, sono reazionarie. E’ un proposito rieducativo.
Sempre in questo scritto, sottilissimo il modo in cui Paolo dice che dopo la rivoluzione andranno processati i potenti di ieri: «La stessa ipotizzazione giustizialista sarà necessaria».
Amputazione + oggettivazione: stile nominale
Un altro esempio di amputazione lo dichiara Paolo stesso, nell’introduzione scritta di suo pugno al libro Un giorno di emozione e ideologia: «sostantivazioni ed oggettivazioni con la verbalizzazione sottintesa». In parole povere: generare l’eliminazione completa dei verbi. Manca l’azione verbale, perché è sottintesa. Questo in retorica è detto «stile nominale», significa che ci sono solo sostantivi, ai verbi si allude, ma si evita di usarli. Paolo porta lo stile nominale ai suoi logici estremi. Ecco un brano dove accadono tante cose, pur persistendo la mancanza di verbi:
telefonata, saluti, colloquialità umorismo progetto allestimento riunione operaia lineamenti relazione analiticità ipotesi progetto colloquialità umorismo saluti accensione televisione notiziari notizie informazioni economia stabilità moneta europea esteri fase rivoluzionaria nel terzo mondo.
Amputazione + oggettivazione: mancare di dire io
Paolo si impedisce di dire: «Io penso che». L’ipotesi è che «L’ipotesi è». «L’ipotesi è» si differenzia da «La mia ipotesi è». L’ipotesi è di tutti, è qualcosa che Paolo intercetta nei flussi di comunicazione, di pensiero, di emozione, e momentaneamente rielabora per rioffrirla agli altri. É l’ipotesi che circola in quel momento del concatenarsi tra esistenze.
Quando Paolo mette in scena se stesso, come gli capita di fare nelle poesie, manca sempre di dire «io». L’ipotesi è quella di dire «Il soggetto» e coniugare in terza persona: è «il soggetto» a girare per le vie, è «il soggetto» a bere un caffè. Il soggetto è Paolo (non sempre ma il più delle volte), è lui ma evita di essere un io.
Altrettanto spesso, in luogo di una persona Paolo usa un concetto. Ad esempio, manca di dire “nel bar entra una donna”: a entrare nel bar è «la femminilità».
Frequentissimo, martellante il ricorso alla particella pronominale impersonale «si». All’inizio di Film Astratto Rosso, Paolo propone una brevissima nota autobiografica. Parla di sé, ma schiva abilmente di dire «io». L’ipotesi è che «si proviene da famiglia operaia e impiegatizia», «si è fatto il giornalista», «si è fatto l’operaio», «circa due anni e mezzo sono passati all’estero», a Berlino Ovest, «si è fatto il corrispondente del Quotidiano dei Lavoratori».
«Si è fatto» è diverso da «io ho fatto». Nella lingua di Paolo ogni processo è collettivo, in luogo di un «io» agiscono tanti elementi, una molteplicità di elementi che si concatenano, tante forze che giocano una insieme all’altra.
Ripetizione: l’anafora
Paolo propone di continuo la figura retorica nota come «anafora». L’anafora consiste nell’iniziare più frasi consecutive con la stessa parola o sequenza di parole, per creare un effetto ritmico e di memorabilità. Tutti i leggendari compagni ricordano con emozione altissima le declamazioni, le lunghe tirate di Paolo dove ogni frase inizia con «Si vincerà»: «Si vincerà in Cile… Si vincerà in Congo… Si vincerà a Timor Est». Altre declamazioni anaforiche sono costruite sulla formula «Come previsto»: «Come previsto, compagni, si sono vinte le elezioni in Venezuela… Come previsto, compagni….» Un’altra anafora si ottiene facendo gli auguri: «Buon gennaio, buon inverno, buon inizio di millennio»
Ripetizione: Il compagno è leggendario
L’ipotesi è: in Paolo la ripetizione va molto oltre l’anafora. L’utilizzo insistito e percussivo di formule e parole-chiave è funzionale alla precisazione e affermazione di concetti. Si pensi alla parola «compagno» e alle sue declinazioni («compagna», «compagni», «compagne»), ripetute come in un sutra o in un rosario, compagno, compagno, compagne, compagni. «Compagno» è una parola bellissima, deriva dal latino cum panis, «compagno/a» è colui o colei con cui divide il pane. Paolo usa la parola estendendone al massimo la connotazione, sconfinando dalla comunità di sinistra storicamente definita. In parole povere: Paolo chiama «compagni» anche soggetti che mai si definirebbero tali.
Ma la formula manca di essere completa, perché nella lingua di Paolo il compagno è sempre «leggendario». L’aggettivo è usato consciamente e a proposito: dire che chiunque si incontra è un «leggendario compagno» equivale a dire che la storia di ciascuno è importante. Ogni storia è importante al pari delle altre, si può essere il più umile dei compagni eppure avere una storia che merita di essere ascoltata, conosciuta, raccontata. Siamo tutti leggendari perché le leggende sono la narrazione del popolo e la storia di chiunque di noi è parte della storia del popolo.
Ripetizione + oggettivazione: un mondo di congiunzioni
Una parola usata spesso è «congiunzione», come nelle formule vintiane «Alla congiunzione con il cosmo», «Alla congiunzione con le galassie sociali» etc., che sono al tempo stesso complementi di moto a luogo (noi andiamo verso la congiunzione con il cosmo) e auspici, sorte di brindisi, come quando si dice «Alla salute».
Nella lingua di Paolo, «congiunzione» ha un quasi-sinonimo, «coniugazione». La prima poesia della raccolta Un giorno di sentimento e socialità si intitola «L’inizio», e si badi a come viene descritto un risveglio: «Il soggetto si coniuga alla mattina». Un agganciarsi tra un soggetto e la mattina, ecco cos’è il risveglio.
Nella poesia programmaticamente intitolata «L’incontro», l’atto di bere è descritto così: «Il soggetto coniuga il bicchiere con la bocca». C’è un concatenamento di elementi, di soggetti, è tutto un congiungersi, un coniugarsi, un agganciarsi, un giocare vicendevole di forze. E’ un immaginario molto simile a quello di alcuni filosofi francesi, come Gilles Deleuze e Félix Guattari, che appunto danno grande importanza al concetto di «concatenamento» [agencement].

Dalla ripetizione alla dialettica: tesi, ipotesi, sintesi
Georg Wilhelm Friedrich Hegel 
Due delle parole più utilizzate da Paolo: «ipotesi» e «sintesi», rispettivamente secondo e terzo elemento di una triade, quella della peculiare dialettica vintiana.
Nella prima metà dell’Ottocento, nell’ambito della filosofia idealistica tedesca prende forma quella spiegazione dei mutamenti che verrà chiamata «dialettica» e che Marx ed Engels capovolgeranno, trasformandola da idealistica a materialistica.
Secondo lo schema dialettico classico, il pensiero passa da un concetto più semplice a uno più avanzato tramite il conflitto con se stesso, attraversando tre fasi. Fichte le chiama «tesi», «antitesi» e «sintesi», ovvero: una cosa, il suo contrario e la sintesi delle due. Hegel usa espressioni più complicate, che insieme ad altre rendono i suoi testi inconfondibilmente illeggibili: «momento intellettivo astratto», «momento razionale negativo» e «momento razionale positivo».
In realtà è uno schema molto semplice:
1) in un primo momento si pensa alle idee ognuna per conto suo, prive di relazioni con altre idee. Si prenda un’idea: la felicità. L’idea di felicità all’inizio è pensata in astratto, senza alcun collegamento ad altre idee.
2) In un secondo momento, il pensiero coglie il fatto che ogni idea è collegata ad altre, ogni concetto riceve il suo senso dalla relazione con altri concetti. Il concetto di felicità riceve il suo primo senso relazionandosi al suo contrario, ovvero l’infelicità. Si capisce che cos’è la felicità se si sa che cos’è l’infelicità. Se nella vita si fosse sempre felici, non si conoscerebbe la differenza tra essere felici e non esserlo. Questo è il momento dell’antitesi.
3) All’antitesi deve seguire la sintesi. Si ottiene la sintesi capendo che non solo nella vita ci sono felicità e infelicità, ma esistono condizioni che rendono infelici, che negano il diritto alla felicità, quindi, in virtù di quella che la dialettica chiama «negazione della negazione», per poter essere felice in modo concreto, il soggetto deve negare ciò che nega la sua felicità. La sintesi consiste nel capire che la felicità non capita per caso, non cade addosso come la pioggia, ma è uno stato da perseguire attivamente e realizzare, per il quale bisogna lottare. Ci si pone dunque il problema di quale etica e quale politica possano rimuovere gli ostacoli alla nostra felicità.
Fin qui il percorso «classico» della dialettica: tesi – antitesi – sintesi. Felicità – infelicità – ricerca della felicità. Il ragionamento si sposta su un piano più alto rispetto a quello iniziale, quando il soggetto pensava la felicità in modo astratto e irrelato. Il movimento verso idee più giuste e più esatte avviene attraverso una negazione e poi una negazione della negazione.
Solo che nel pensiero di Paolo mancano le negazioni, quindi manca l’antitesi. Come può essere una dialettica che evita l’antitesi?
Paolo manca di dire «tesi, antitesi e sintesi». Nelle sue declamazioni dice: «Tesi, ipotesi e sintesi». In luogo dell’antitesi mette l’ipotesi e quindi tutto cambia, perché l’ipotesi evita di essere il contrario della tesi.
Che cosa è l’ipotesi rispetto alla tesi? E’ una domanda sui limiti dell’idea iniziale, una domanda che allarga il campo del pensabile delle possibilità. Il soggetto pensa: «felicità» e una voce risponde: «La felicità è congiunzione con le galassie sociali». Manca il momento in cui il soggetto pensa all’infelicità. Nei testi di Paolo si manca di pensare l’infelicità. Esistono invece diverse ipotesi su molte felicità possibili. La felicità è molteplice, dalla tesi sulla felicità si generano sempre nuove ipotesi.
Ma allora, come si realizza la sintesi se si manca di passare attraverso la negazione e quindi di negare la negazione? Paolo lo spiega nel suo libro Rivoluzione: «l’ipotesi si allarga per ospitare una sintesi aperta». Quindi la sintesi manca di risultare dalla negazione della negazione: la sintesi è la convivenza di tutte le ipotesi, tutte le ipotesi generate partendo dall’idea iniziale, quindi dall’idea di felicità, e, scrive ancora Paolo: «il presente come sintesi aperta di tempo che ospita l’esserci, il proprio esserci». Il ciclo della dialettica vintiana manca di chiudersi, rimane sempre aperto. E’ una dialettica, appunto, del molteplice.
Certo, è uno strano ciclo: il soggetto fatica a immaginare un ciclo che si apre soltanto e manca di chiudersi. Che razza di ciclo è? Il ciclo dovrebbe ruotare, lo dice la parola stessa. È un paradosso, come i paradossi geometrici di Escher. Ma il paradosso è difficile da immaginare solo se il soggetto pensa al tempo come a una linea retta sulla quale si può andare solo avanti o indietro. Una traiettoria lineare e continua. Ma se il soggetto immagina il tempo e il divenire della storia come matasse multidimensionali, fatte di tanti fili, di tante traiettorie, allora tutto cambia tutto, perché oltre ad andare avanti e indietro il pensiero può scartare di lato, andare a nord, a sud, a sud-sud ovest, verso l’alto, giù per una vallata…
Il fronte popolare cosmico è interessante
In Rivoluzione si trova un concetto interessante: «coesione aperta», collegabile a un’altra parola importantissima del lessico vintiano: «interessante». Nell’italiano banale che si parla tutti i giorni, «interessante» è un aggettivo blando e poco rischioso, ma Paolo lo ravviva accostandolo a incredibili «coesioni aperte». Per Paolo, un processo è interessante nel senso che ci fa essere in mezzo alle cose. In latino «inter» significa «in mezzo a», Paolo torna alla radice, all’etimo del verbo “inter-esse”. E’ interessante quel che ci prende, ci coinvolge, ci trascina in mezzo. Due esempi:
Coniugando l’unificazione degli universi con il progetto genoma e con l’eliminazione delle povertà lo sviluppo programmatico viene ritenuto interessante.
Coniugare tutti i mondi e le forme di vita, abolire la povertà. Senz’altro interessante. E ancora:
la strutturazione di cooperative che allestiscano del situazionismo culturale, concettuale ed artistico divaricato dal potere, dalla moneta e dalla decisione, è interessante.
Estendere spazi di espressione libera e lavoro comune, ventilando l’ipotesi di abolire il denaro. Molto interessante.
cosmos
Congiunto a questo mondo di coesioni aperte che ci fanno «inter-essere» è l’uso della parola «cosmo». Il cosmo è la totalità, ma è una totalità molteplice. Nel cosmo ci sono stelle, pianeti, asteroidi, comete, nebulose, energie, navicelle spaziali, raggi cosmici, satelliti, buchi neri, supernove, nane bianche… «Cosmo» manca di essere una reductio ad unum, per diventare un’apertura. Alla congiunzione con le galassie sociali!
L’ipotesi è: i vorticanti ed eterogenei elenchi di lotte, tornate elettorali, movimenti e partiti di sinistra che troviamo nelle declamazioni di Paolo servono a rendere immaginabile un fronte popolare cosmico che interessi tutti i leggendari compagni e le leggendarie compagne, dalla sinistra più «moderata» a quella più insurrezionale. Quella di Paolo è un’insiemistica radicale e radicalmente egualitaria, che mette sullo stesso piano diversi ordini di grandezza, complessità e consistenza storica. Nel testo intitolato «Impero!» Paolo parla del potere «che va da Perugia a Orvieto a Roma a Mosca a New York agli universi». Da Orvieto… agli universi. Qui manca di stabilirsi una gerarchia, perché per il fronte popolare cosmico tutti i compagni contano, e i compagni vengono interessati da qualunque lotta, qualunque vertenza che abbia connotazioni di sinistra.
Paolo si riferisce continuamente a lotte e parti del mondo che i media italiani trascurano quasi del tutto: molto spesso parla di Timor Est, dice: «Abbiamo vinto a Timor est» o altre frasi del genere; parla del Congo, di conflitti dimenticati, di lotte ignorate che grazie alla cornice del fronte popolare cosmico vengono portate alla nostra attenzione, eterogeneamente, egualitariamente: quel che accade a Timor Est equivale il fatto che il tuo vicino di casa sia diventato consigliere di quartiere. Le serate organizzate da un circolo culturale di Orvieto equivalgono la colonizzazione di altri pianeti per avere basi comuniste extraterrestri.
Questo modo di inquadrare la questione serve a farci pensare e immaginare fuori dal settarismo e dallo sconfittismo che affliggono la sinistra. Paolo evita di menzionare il settarismo e lo sconfittismo, ma tutto il suo sforzo concettuale e stilistico è teso a generare il loro superamento. Paolo ci invita a parlare e ascoltare, a interessarci e ragionare nei termini di una tradizione rivoluzionaria comune, che ci accomuna tutti al di là delle differenze contingenti, del fatto che Tizio sta in questo partito o collettivo e Caio sta in un altro. L’ipotesi è: veniamo tutti dallo stesso posto, e tutti noi cerchiamo di andare nello stesso posto, e questi tentativi, differentii l’uno dall’altro, comunque possono coesistere nel cosmo. Il cosmo è un tutto che manca di omologarsi, è totalità fatta di molteplicità.
Paolo evita sistematicamente di essere eurocentrico. In Rivoluzione usa un aggettivo che appartiene al campo semantico della geografia fisica:
la ridislocazione a livello terzomondista su posizione di radicalità dei programmi degli esecutivi, la centralità indiretta a livello australe della progressività a sinistra della programmazione.
«Australe», ovvero: che sta sotto l’Equatore. «Australe» è la dimensione del Sud del mondo. Paolo evita di pensare in termini di «borealità», cioè di superiorità rispetto all’Equatore. Nel brano citato, sta dicendo che molte cose si giocano nel Sud del mondo, ma lo dice in un modo che «interessa», che spinge a fermarsi e pensare.
Ripetizione: l’emozione è altissima
Se il compagno è leggendario, l’emozione è sempre altissima. Nell’italiano piatto di ogni giorno diremmo «emozione grandissima», ma nella lingua vintiana l’emozione si innalza. Si innalza per congiungersi con le galassie sociali. Un’emozione grandissima può essere d’ingombro, occupare spazio un po’ di qua e un po’ di là, espandersi senza una direzione. Un’emozione altissima si erge, si costruisce piano dopo piano, ha a che fare con una progettualità. Nella sua declamazione La meraviglia cubana:

Paolo dice che «la meraviglia cubana è altissima». L’ipotesi è: in tutta la storia della lingua italiana, prima di Paolo tutti avevano mancato di unire le parole in quel modo.
In «emozione altissima» c’è un’eco di un altro filosofo e poeta umbro, Francesco d’Assisi. «Altissima povertà». Il riferimento è certamente intenzionale. Si è fatto notare che Paolo è una figura fortemente francescana, di quel francescanesimo precedente al recupero da parte della chiesa ufficiale. Altri che conoscono meglio l’argomento potranno sviluppare questa connessione.
Derivazione: sfidare la parodia
Tramite un processo di derivazione, Paolo inventa parole – soprattutto sostantivi – che, pur essendo grammaticalmente plausibili, arrivano all’orecchio come sorprese. Parole che possono sembrare parodie di quelle che usiamo ogni giorno, corrono il rischio della caricatura, come egli stesso, Paolo, corre il rischio della caricatura nei suoi anni di predicazione in strada. Ecco un elenco molto parziale:
Parallelità. Superazione. Doppietà. Discotecità. Videicità. Amorabilità. Cadenzialità. Sospensionalità. Architteturicità. Arcipelagicità. Spettatricità. Combaciavità. Vacanziarietà. Componenzialità. Consistenzializzarsi.
Questo per quanto riguarda l’aggiunta di suffissi, cioè delle parti finali delle parole. Più di rado, Paolo aggiunge prefissi. E’ il caso di «postcedente» usato come sinonimo di «successivo».
Partendo dalla derivazione, Paolo si impegna in un gioco a incastri durante il quale gruppi di parole si trasforma, si permutano creando sequenze trascinanti dal punto di vista ritmico e inebrianti per la continua invenzione di concetti.
E’ il moltiplicatore del possibile
è il possibilismo della nuova umanità
la dinamo della possibilità dell’esecutività rivoluzionaria
La potenza dell’evocazione del figurativo nella rivoluzione
E’ il moltiplicatore del possibile
il generare del possibilismo della nuova umanità
la dinamo della possibilità dell’esecutività rivoluzionaria
il volano dell’energia
l’apertura del ciclo della rivoluzione
la formazione del ciclo accumulazione di energia-esecutivo-crisi-rivoluzione
E’ la produzione della produttività
il produttivismo moltiplicato
E’ il dispositivo fondamentale dell’evolversi
il minimo comune denominatore dell’operazione
l’ipotesi dell’osmosi tra governo e rivoluzione
le fondamenta dell’aprire
il basamento del rifondare della società
il centro della nuova traiettoria rivoluzionaria
il comitato di base del vertice rivoluzionario
l’ipotizzare della tesi della rivoluzione
In questo brano interagiscono cinque gruppi di parole, corrispondenti a cinque campi semantici.
1. Campo semantico della possibilità: «possibile» «possibilità», «possibilismo».
2. Campo semantico della rotazione/energia: «dinamo», «volano»
3. Campo semantico della produzione: «produttività», «produzione», «produttivismo».
4. Campo semantico della dialettica: «ipotesi», «ipotizzare», «tesi».
5. Campo semantico della costruzione: «basamento», «vertice», «rifondare».
Congiungendo e facendo ruotare le parole appartenenti ai cinque campi, Paolo crea delle sorte di «rime concettuali», motivi che ritornano all’orecchio, ogni volta simili ma diversi. In questo modo fa volare l’immaginazione, chi ascolta viene interessato, trascinato nel testo.
Cosa intende Paolo per «produzione della produttività»? E per «produttivismo moltiplicato»? L’ipotesi è: si produce sempre realtà. Il latino «pro-duco» significa «portare innanzi», «portare davanti». Quelle che Paolo ci porta davanti è una realtà ricca di senso e di sensi. Lo dice all’inizio: «è il moltiplicatore del possibile».
Già, ma cosa è il moltiplicatore del possibile? In tutto il brano riportato, il soggetto rimane sottinteso: «è» – voce del verbo essere, terza persona singolare – inizia la sequenza e sul suo ritorno si costruisce l’ennesima anafora di Paolo, mancando di prodursi un soggetto.
Qualcosa di simile si trova in una vecchia canzone di Gianfranco Manfredi, Ma chi ha detto che non c’è. In luogo di «è», qui c’è «sta»:
Sta nel sogno realizzato
sta nel mitra lucidato
nella gioia nella rabbia
nel distruggere la gabbia
nella morte della scuola
nel rifiuto del lavoro
nella fabbrica deserta
nella casa senza porta
Tutta la sequenza dipende da quello «sta» iniziale, ma cosa «sta»? L’ipotesi è: ciò che per Manfredi «sta», è la stessa cosa che per Paolo «è». La rivoluzione. Il comunismo. La sovversione. La liberazione. La congiunzione con le galassie sociali. Di cos’altro parla e scrive e vive Paolo nella sua esistenza che è «ipotesi di rivoluzione ipotizzabile»?
L’incontro
Un vecchio album di Sergio Endrigo e Vinicius de Moraes si intitolava La vita, amico, è l’arte dell’incontro. Qual è la situazione che tutti noi associamo (coniughiamo) a Paolo? È l’incontro. L’incontrarlo, l’averlo incontrato per la via. Paolo che ti chiama dall’altra parte della strada, che ti chiama per incontrarti. Nella poesia «La verità» Paolo scrive due versi «con verbalizzazione implicita», due versi folgoranti:
L’accoglienza come inevitabile
la gentilezza come centrale
Qui c’è veramente tutto Paolo, il cosmo di Paolo. In un’altra poesia, «L’inizio», Paolo descrive la propria uscita di casa, e lo fa così:
I movimenti del soggetto
si fanno da lenti a modulati verso
velocità più elevata
il susseguirsi della dinamica
cadenza le operazioni
di passaggio
dalla casa all’esterno
controllo unito a velocità
storia delle ultime ore
coniugata al progetto della giornata
il profumo dei vani
l’aroma di caffè e tabacco
la musica, il televisore
costituiscono l’atmosfera che si lascia
introducendosi nella metropolitaneità
L’uscita di casa
ospita l’entrata nella via.
«L’uscita di casa / ospita l’entrata nella via». La via è casa del soggetto, anche più della casa stessa. L’uscita di casa ci ospita, noi veniamo accolti non quando entriamo in casa ma quando ne usciamo, perché è fuori di casa che si vive davvero, la vera casa è Corso Vannucci, sono le strade, le piazze. Uscire di casa è un’azione che compiamo una o più volte al giorno e ci sembra un’azione semplice, ma è una semplicità apparente, perché ogni volta manchiamo di sapere cosa troveremo fuori. Abbiamo aspettative, ma possono essere tradite in qualunque momento, può succederci qualunque cosa, è possibile qualunque incontro. Noi andiamo incontro all’incontro. Ogni uscita di casa è potenziale avventura. Quasi tutte le poesie di Paolo descrivono scene di vita di piazza, di caffè, ma grazie al suo linguaggio si trasfigurano e ci interessano, toccano qualcosa di universale (nel senso di cosmico).
La veggenza come progetto
Una delle cose che più ricordiamo di Paolo, anche grazie all’anafora, è il suo uso del futuro: «si vincerà» Il poeta è un veggente, il poeta vede nel futuro. Il primo a recuperare quest’immagine nella modernità fu Arthur Rimbaud, che ad appena sedici anni, nel 1871 (l’anno della Comune di Parigi) scrisse un testo seminale, che a distanza di qualche decennio avrebbe ispirato tutte le avanguardie novecentesche. Il testo è convenzionalmente noto come «La lettera del veggente». Eccone un estratto:
Arthur Rimbaud
Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in se tutti i veleni per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ ignoto ! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Egli giunge all’ignoto e anche se, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, almeno ne avrà viste! […]
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.
Ha l’incarico dell’umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli darà forma; se è informe, darà l’informe.
Trovare una lingua;
– Del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! […] Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che aggancia il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che si desta nell’anima universale del suo tempo: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso! Quest’avvenire sarà materialista, lo vede. Sempre piene di numero e di armonia, queste poesie saranno fatte per restare.
I poeti francesi che a partire dal contenuto di questa lettera agiteranno la più importante avanguardia letteraria del Novecento, ovvero il surrealismo, avranno episodi di veggenza. Uno su tutti, André Breton, in un libro del 1925 intitolato L’Amour fou:
certe persone si dicono convinte che la guerra abbia loro insegnato qualcosa. Ne sanno in ogni caso meno di me che so cosa mi riserva l’anno 1939.
Viktor Velemir Chlebnikov 
Nel ’25 Breton preconizza gli sconvolgimenti del ’39, l’anno in cui inizierà la seconda guerra mondiale. Il linguaggio poetico racchiude tutti i possibili. Azzardando, si può ottenere un’anticipazione. E’ come se il poeta uncinasse il tempo e tirasse, e quell’uncino è il linguaggio. Un altro poeta delle avanguardie storiche, il cubofuturista russo Viktor V. Chlebnikov, in un testo del 1912 intitolato «Maestro e allievo» scrive: «non dovremmo aspettarci la caduta di uno stato nel 1917?», cioè l’anno della Rivoluzione d’ottobre. Nel 1914 ripete quell’azzardo in una raccolta di scritti futuristi intitolata Schiaffo al gusto del pubblico: suo il testo conclusivo, intitolato «Uno sguardo all’anno 1917», dove si elencano eventi a venire, tra cui la caduta di diverse grandi potenze, Russia compresa. Il testo è firmato: «Qualcuno 1917». Il poeta è un veggente.
Ecco che quel «come previsto» ripetuto da Paolo comincia a risuonare in testa in modo diverso. Ecco che quel «si vincerà» diventa elettrico.
Nella declamazione su Cuba citata poc’anzi, inclusa nell’album Cosmo Rosso, Paolo dice:
Una volta Fidel disse: «Noi diremo il giorno, il mese e l’anno in cui prenderemo il potere a Cuba», e poi lo ha realizzato. Questo significa che la rivoluzione cubana fa parte di un progetto, ha fatto parte e farà parte di un progetto.
Che questo aneddoto sia vero oppure apocrifo, è in ogni caso perfetto, perché illumina la coniugazione di veggenza e progetto. La veggenza evita di essere un tirare a indovinare: deriva da uno «sregolamento» del linguaggio «lungo e ragionato», durante il quale il poeta diventa «il grande infermo», si spinge in un «laggiù» e ne torna con l’incarico di cercare la lingua universale. La lingua del fronte popolare cosmico. La lingua che uncini la realtà e il futuro e li tiri verso di noi. Dunque la veggenza è un progetto, un progetto tenacemente perseguito. E’ un predisporsi per rimanere aperti a ogni possibile, compreso quello di prevedere nel 1925 l’anno esatto in cui scoppierà la seconda guerra mondiale, o prevedere nel 1912 l’anno esatto in cui cadrà il regime degli Zar.
«Laggiù»
Un’altra celeberrima immagine di Arthur Rimbaud dà il titolo a una sua prosa poetica: «Una stagione all’inferno».
Tutti gli articoli e le testimonianze su Paolo da giovane, Paolo leader del movimento studentesco di Perugia, Paolo militante di Democrazia Proletaria, contengono riferimenti molto discreti, mai invasivi, all’ipotesi di una stagione all’inferno. Ad un certo punto, nella vicenda di Paolo, c’è materia che si addensa sull’orlo di un buco e in quel buco noi manchiamo di sapere cosa ci sia. Paolo torna da un «laggiù», e torna veggente. Tutti fanno riferimento ai due anni trascorsi a Berlino ovest, dicono che quegli anni lo hanno cambiato, che è tornato dalla Germania diverso, smarrito. Da quella misteriosa discesa agli inferi, della quale manchiamo di sapere, Paolo riemerge da «grande infermo», sentendosi di avere in carico l’intera umanità. Perciò si impegna a ricostruirsi come persona, a trovare la lingua adatta e a dare corpo all’ipotesi Paolo Vinti: quella di un filosofo di strada e poeta veggente. Veggenza che è parte, è stata e farà parte di un progetto. Tesi, ipotesi, sintesi. Traiettoria, consistenza, realizzazione. Pensiero, idea, programma. Teoria, ideologia, rivoluzione. Cosmo rosso. Cosmo, libertà ed uguaglianza.
 
Tra Bologna e Perugia, novembre 2011 – novembre 2012.
 

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua