venerdì 13 novembre 2015

Se i debiti fossero soldi saremmo tutti ricchi...di Claudio Conti, Contropiano.org

Se i debiti fossero soldi saremmo tutti ricchi...
Ieri sono crollate le borse europee perché una frase pronunciata da Janet Yelle, presidente della Federal Reserve Usa, è stata interpretata come preludio certo all'aumento dei tassi di interesse dopo sei anni in cui sono rimasti a zero. Un'inversione di tendenza a lungo rimandata - da almeno un anno - perché la situazione economica continuava a presentare molti lati oscuri.
Se l'interpretazione dei mercati fosse corretta - ed è probabile che lo sia - nei prossimi mesi assisteremo a una corsa dei capitali globali verso gli Usa, alla ricerca di rendimenti migliore dello zero (o peggio) offerto oggi in Europa o in Giappone; ed anche a un rialzo deciso del valore di cambio del dollaro, che metterà in grandi difficoltà tutti i paesi e tutti i privati indebitati in dollari (dovranno pagare interessi più alti). E decine di altre conseguenze non facilmente prevedibili.
Perché si cambia regime negli Usa appena pochi mesi dopo che la Bce, e non solo lei, ha invece intrapreso la strada praticata dalla Fed per sei lunghi anni? Per eliminare molti capitali in eccesso, che non trovano occasioni appetibili di valorizzazione, ed anche per cercare di salvaguardare la sempre meno accettata "centralità del dollaro". In ogni caso, perché qualsiasi politica monetaria arriva a toccare un limite - i tassi zero e i quantitative easing - oltre cui l'assenza di risultati concreti pone un dilemma: si torna alla "normalità" prescritta dai manuali neoliberisti oppure ci si avventura in territorio sconosciuto, adottando "misure non convenzionali" sempre più audaci?
Sappiamo che alcuni nostri lettori sono molto attenti ai problemi teorici posti dall'attuale crisi. Sappiamo anche che non sono certo una maggioranza, ma costituiscono comunque il nerbo – una volta si sarebbe detto “l'avanguardia” - della possibile, necessaria, sempre tardiva, conoscenza minima a supporto di un'attività politica (o anche solo sociale, sindacale, ecc) altrimenti destinata alla pura sopravvivenza.
Nel proporre i due articoli che seguono, dunque, almeno questi “infelici pochi” non resteranno sorpresi dal vedere che non sono una nostra produzione ma provengono da due giornali davvero non dalla nostra parte, istituzionalmente attentissimi a ogni stormir di foglia che riguardi la gestione di questa crisi. E che affrontano, da due diversi punto di osservazione, il nodo vero della congiuntura e il limite delle (sole) politiche monetarie.
Il primo arriva dal Financial Times, porta la firma del vecchio saggio Martin Wolf; il secondo da IlSole24Ore (che traduce e stampa anche il primo pezzo), ad opera di Maurizio Sgroi con lo pseudonimo di Maitre_à_panZer.
Perché li riteniamo importanti? Per due motivi complementari; il primo certifica che la crisi sta attraversando un momento di stanca, a livello globale, ma non accenna minimamente a invertire la tendenza, nonostante tutti gli sforzi fatti – dai governi non europei e dalle banche centrali – per incentivare l'economia reale.
Il secondo perché chiarisce il vero significato dei quantitative easing e la tentazione, che comincia ad affacciarsi, di sperimentare politiche monetarie sempre meno convenzionali fino all'ipotesi estrema: monetizzare l'immenso debito globale esistente.
Pubblichiamo questi due pezzi di bravura nel giorno in cui Mario Draghi, davanti al parlamento europeo, ha confermato un rafforzamento del QE già in atto per scuotere un'economia che non risponde più a nessuno stimolo, sfornando strumenti finora non utilizzati, anche se in quasi tutta Europa i rendimenti dei titoli di stato – persino quelli italiani, ormai – sono finiti “in territorio negativo”; ovvero consentono agli stati di rifinanziare il proprio debito a costo zero o addirittura guadagnandoci qualcosina. Per un paese come l'Italia, che spende 70 miliardi l'anno di soli interessi sul debito esistente, si tratta di una boccata d'ossigeno quantificata in alcuni miliardi l'anno. Finché dura...
Ma le coincidenze temporali non finiscono qui. Siamo anche al quarto anniversario dell'”invasione” della Troika, con l'inaugurazione del governo Monti e della pratica incostituzionale di nominare governi non eletti. Quattro anni di “terapia hard” che non hanno prodotto alcun effetto sullo stock del debito pubblico (sempre saldamente al di sopra del 130%), né sulla produttività del lavoro (dipendente dagli investimenti – inesistenti – delle imprese, non dal minor costo del lavoro), ma che hanno favorito la svendita a prezzi stracciati di buona parte del patrimonio industriale italiano, oltre che il quasi azzeramento del welfare e lo sterminio dei diritti del lavoro.
Martin Wolf introduce, a mo' di spiegazione del perdurare della crisi, il concetto di isteresi. Ovvero il forte effetto frenante delle pessime performance recenti su quelli successive. Una constatazione evidente soprattutto in Europa, dove quasi nessun paese è tornato ai livelli pre-crisi e il livello delle cadute del Pil rispetto al 2008 oscillano tra lo zero della Svizzera e il -30% di Grecia e Ungheria (l'Italia è a -10). Ma anche lui è costretto a interrogarsi sul perché la marea di liquidità immessa nel circuito finanziario non produca il “normale” effetto di far ripartire l'inflazione, quindi la dinamica dei prezzi che trascina con sé gli investimenti (che non si fanno, se le prospettive sono di prezzi in discesa), l'occupazione, la “fiducia” e la crescita. Inevitabilmente deve arrivare, keynesanamente, a suggerire investimenti pubblici. Che sono però vietati dai trattati dell'Unione Europea, così come i salvataggi delle aziende in crisi (ma non delle banche, specie se inglesi, francesi o tedesche). E questo gli fa scuotere negativamente il capo.
Più spietato ancora Maitre_à_panZer, che per l'appunto spiega come ogni quantitative easing non sia altro che una monetizzazione del debito. Temporanea e reversibile (la banca centrale acquista titoli magari invendibili, ma che successivamente potrebbero tornare appetibili), ma pur sempre monetizzazione. Ossia trasformazione di un debito – una cifra che va restituita, con in più gli interessi – in moneta regalata da un “prestatore di ultima istanza” che si sostituisce di fatto al debitore. Se si riuscisse a farlo in modo permanente, tutti i debiti diventerebbero soldi spendibili, facendo felici sia i creditori (ricevono indietro la cifra stabilita) che i debitori (improvvisamente liberi di ogni gravame). Neanche questo si può fare nell'Unione Europea (ci vorrebbe uno Stato federale e una Bce non indipendente), ma da altre parti teoricamente sì.
Miracoloso, non è vero? Vien da dire: ma perché non ci avete pensato prima, invece di smenarcela con l'austerità, il pagamento del debito-colpa, le “riforme strutturali”, l'abbassamento dei salari, la pensione a 70 anni, la precarietà universale, la disoccupazione galoppante?
Diceva Lee Iacocca (a.d. di General Motors, al tempo) che “non ci sono pasti gratis”. O perlomeno non ci sono per tutti. Se qualcuno mangia a sbafo, qualcun altro deve pagare; o, se qualcuno mangia troppo, qualcun altro se lo deve veder tolto dalla bocca.
Significa che la magia dello “stampar denaro”, come ogni magia, è solo un trucco da illusionisti. Si può fare se qualcuno fa la parte dello spettatore stupito, o del buon selvaggio che accetta perline di vetro in cambio di oro e argento.
È un'idea da bambini, di quelli convinti che i soldi dei genitori escano dal bancomat anziché dalle ore di lavoro retribuite a fine mese. Un'idea che presuppone l'ignoranza completa di tutto quel che comporta un sistema economico, fatto di relazioni contrattualizzate, scadenze, percentuali di profitto, ecc.
Ma il solo fatto che think thank serissimi, e ultrafinanziati, tirino fuori un'idea del genere dà la misura della disperazione teorica cui sono giunti i maître à penser del capitale. Dopo un quarto di secolo di crescita finanziata dal debito (sia pubblico che privato), ora qualcuno spera che si possa andare avanti alzando la produttività delle tipografie della Zecca.
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Il vero male della Grande Recessione? L’onda lunga dei contraccolpi negativi
di Martin Wolf
Gli Stati Uniti e l'Europa convivono ancora con gli strascichi della crisi finanziaria del 2007-2009 e la crisi dell'euro che ne è seguita. Sarebbe stato possibile prevenire questo esito con politiche migliori? E se sì, quali?
Una ripresa c'è, ma in senso limitato. Quasi ovunque, in questo momento, il prodotto interno lordo dei Paesi colpiti dalla crisi ha il segno più davanti, ma il Pil rimane largamente al di sotto di quello che ci si sarebbe potuti attendere basandosi sulle tendenze ante-crisi. Nella maggior parte dei casi la crescita non è ripartita, soprattutto a causa del rallentamento della crescita della produttività. Nell'Eurozona, il Pil, nel secondo trimestre del 2015, era ancora al di sotto dei livelli ante-crisi. Nei Paesi colpiti dalla crisi, il ritorno al livello di produzione precedenti è ancora lontano e si profila all'orizzonte una prospettiva di decenni perduti.
Basandosi su un campione di 23 Paesi ad alto reddito, il professor Laurence Ball, della Johns Hopkins University, giunge alla conclusione che la perdita di prodotto potenziale varia dallo 0 per cento della Svizzera al 30 per cento e passa di Grecia, Ungheria e Irlanda. Nel complesso stima che il prodotto potenziale quest'anno sarà l'8,4 per cento al di sotto di quello che si sarebbe potuto prevedere sulla base della traiettoria ante-crisi. Il danno prodotto dalla Grande Recessione, osserva Ball, equivale più o meno alla sparizione dell'economia tedesca.
Una scoperta centrale dello studio del professor Ball, e più recentemente di António Fatas dell'Insead e Lawrence Summers di Harvard, è che le stime del prodotto potenziale seguono da presso l'andamento del prodotto effettivo. Questo lascia ritenere che l'«isteresi», l'impatto dell'esperienza passata sulla performance successiva, sia molto forte. Fra le possibili cause dell'isteresi figurano: l'effetto di una disoccupazione prolungata sull'occupabilità, i rallentamenti degli investimenti, la minore capacità del settore finanziario di sostenere l'innovazione e una perdita ad ampio raggio di spiriti animali.
Quest'anno Jason Furman, presidente del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, ha messo in evidenza l'impatto del basso livello di investimenti seguito alla crisi: dopo la crisi, il contributo degli investimenti in produttività della manodopera è sceso a livelli estremamente bassi. Vale in modo eclatante per gli Stati Uniti, dove l'impatto stimato è di fatto negativo.
L'ipotesi dell'isteresi non è accettata da tutti. Ci sono almeno altre tre spiegazioni per il perdurare del tracollo della produzione seguito alla crisi.
La prima sostiene che i boom del credito hanno spinto in alto le stime del prodotto potenziale, molto al di là dei livelli sostenibili. Un'obiezione a questa tesi è che l'espansione del credito ha fatto crescere i prezzi delle attività molto più di quanto non abbia alimentato la spesa effettiva. Adair Turner, l'ex presidente dell'Autorità del Regno Unito per i servizi finanziari, sottolinea questo aspetto nel suo libro Between Debt and the Devil. Un'altra obiezione a questa tesi è che confonde il contributo del debito alla struttura della domanda con il suo effetto sull'offerta complessiva.
Una seconda spiegazione per il tracollo della produzione dopo la crisi è che si sta sottovalutando l'impatto delle nuove tecnologie. Ma anche se fosse vero (il che è possibile), non spiegherebbe il drastico rallentamento della crescita della produttività seguito alla crisi finanziaria. Inoltre, la difficoltà di misurare l'impatto delle nuove tecnologie non è un problema esploso all'improvviso nel Regno Unito (il Paese più colpito dal rallentamento della crescita della produttività post-crisi) rispetto agli Stati Uniti (che sono la patria di queste nuove tecnologie, ma sono relativamente meno colpiti dal rallentamento della produttività).
Un'ultima spiegazione è che la crescita della produttività aveva rallentato già prima della crisi. Negli Stati Uniti apparentemente è così, ma altrove non è altrettanto evidente.
Nel complesso, quindi, l'ipotesi dell'isteresi sembra parecchio convincente. Ecco perché è così importante evitare crisi di vastissima portata e reagire con decisione a qualunque crisi, per minimizzarne l'impatto economico. In caso contrario, il rischio è che il ciclo negativo danneggi in via permanente la tendenza.
Tutto questo solleva altri due interrogativi: l'impatto negativo della crisi avrebbe potuto essere minore? E siamo ancora in tempo per invertire la rotta? La risposta alla prima domanda è inevitabilmente sì. Ma sarebbero servite risposte più decise sul piano della politica di bilancio e della politica monetaria, e una ristrutturazione più spinta delle istituzioni finanziarie colpite. L'Eurozona, in particolare, avrebbe dovuto fare molto meglio, ma ancora oggi non possiede la volontà e le istituzioni necessarie a questo scopo.
Anche la risposta alla domanda se sia ancora possibile recuperare il terreno perduto in termini di livelli di produzione e tassi di crescita è inevitabilmente sì. All'inizio degli anni 60, il Pil pro capite negli Usa era tornato al livello segnalato da una continuazione delle tendenze precedenti al 1929. Sfortunatamente, il deus ex machina in quell'occasione fu la spinta impressa all'economia dalla spesa pubblica a partire dalla seconda guerra mondiale, sistema non replicabile in tempo di pace. Nonostante questo, tornare alla crescita tendenziale ante-crisi dovrebbe essere quantomeno possibile: un insieme di misure drastiche per rilanciare la domanda e favorire l'offerta nel lungo periodo (in particolare mediante livelli più alti di investimenti pubblici) centrerebbe al contempo entrambi gli obbiettivi.
I dati, insomma, dimostrano che l'incancrenirsi delle recessioni produce effetti di lungo periodo sulla prosperità. Una conclusione è che è fondamentale agire prontamente per ripristinare la domanda. Senza contare che ormai è evidente che i grandi Paesi ad alto reddito disponevano dello spazio di manovra necessario per agire con decisione. A dispetto di quello che tanti dicevano, sconsideratamente, nel 2010, non c'è mai stato il minimo rischio che seguissero la sorte della Grecia. Gli Stati Uniti, e ancor più l'Eurozona, avrebbero dovuto reagire in modo molto più aggressivo.
L'esperienza indica qualcosa di non meno importante. Evitare le crisi non è semplice, ma è vitale fare in modo che siano rare e di portata limitata. Le crisi finanziarie portano a recessioni pesanti e rallentamenti prolungati, e una delle ragioni è che i policymakers hanno paura di dare risposte sufficientemente forti. Per questo regolamentare di più la finanza era una cosa che andava fatta, punto e basta. Il dubbio è solo se sia stata regolamentata nel modo giusto.
Copyright The Financial Times Limited 2015
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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The day after il QE: la magica trasformazione del debito in moneta
Maitre_à_panZer il 11 Novembre 2015
Poiché l’inimmaginabile è già accaduto – i vari QE e i tassi negativi – nessuno dovrebbe stupirsi che finisca con l’accadere ciò che molti hanno già immaginato. Ossia che per liquidare la montagna di debiti cumulata dal 2008 a oggi, ormai verso il 270% del Pil mondiale, si decida di trasformarla in moneta, quest’ultima essendo il debito “perfetto”, che non genera interessi e non è redimibile.
Tale ipotesi viene contemplata in un paper di Adair Turner, dell’Institute for New Economic Thinking (“The Case for Monetary Finance – An Essentially Political Issue”) presentato nel corso della sedicesima Jacques Polak Annual Research Conference, che si è tenuta al Fmi il 5 e 6 novembre. Vale la pena sottolineare che l’appuntamento aveva per tema “Unconventional Monetary and Exchange Rate Policies”.
Che l’idea di monetizzare i debiti custoditi dalle banche centrali non sia un’ipotesi di scuola si evince già dall’epigrafe del paper, che riporta una citazione di Bernanke del 2003: “Considerate ad esempio un taglio di tasse per le famiglie e le imprese che sia esplicitamente accoppiato con un aumento degli acquisti di debito governativo da parte della Banca del Giappone Questo taglio di tasse è in effetti finanziato dalla creazione di credito”.
La creazione di credito è quella roba misterica, ma in sostanza assai prosaica, che fa somigliare i nostri banchieri centrali a moderni Creso che tengono fra le mani la cornucopia dalla quale può sgorgare denaro a volontà e quindi la chiave della ricchezza senza sforzo. O almeno così pare.
La “monetary finance”, che può tradursi con monetizzazione del debito, viene definita come la creazione di un deficit fiscale non finanziato con l’emissione di debito che deve essere servito – segnatamente un bond – ma con l’aumento della base monetaria, “ossia con debiti monetari non redimibili e senza interessi del governo/central bank”.
Questa sostituzione di debito con moneta, che è debito anch’essa ma di natura peculiare, è perfettamente coerente con lo spirito del tempo, ormai uso a scambiare debito con altri debiti. In più “può riguardare sia un taglio di tasse che un aumento di spese, che senza (monetizzazione, ndr) non sarebbero possibili – spiega – e può essere fatta una volta sola o più volte”.
Il paper spiega che “ci sono vari modi attraverso i quali la moneta può essere creata”. Ma aldilà delle diverse tecnicalità, le conseguenze sono le stesse: il bilancio della banca centrale e quello del governo finiscono con il coincidere, aumenta la base monetaria e, soprattutto, il governo sarà in grado di diminuire le tasse o aumentare le spese senza doversi caricare debiti sui quali sarà chiamato a pagare interessi o che dovrà redimere.
A ben vedere, la differenza sostanziale fra il QE e la monetizzazione del debito è che il primo è reversibile (i bond pubblici possono essere rivenduti ai privati) e il secondo no. Il primo aumenta temporaneamente la base monetaria, e a volte anche il deficit e il debito, il secondo permanentemente. In generale tuttavia, “non ci sono ragioni tecniche per escludere la monetary finance”, spiega il paper.
E se non ci sono motivi tecnici ostativi, allora risulta chiaro che le uniche possibile ragioni contrarie sono di natura politica. Il rischio infatti è che “la monetary finance rilassi i vincoli di bilancio finendo col creare problemi politici”. “Il problema centrale – argomenta – è se siamo capaci di di disegnare un set di regole che ci consentano di ottenere i vantaggi tecnici derivanti dalla monetary finance evitando i rischi di misure eccessive”.
Se questa è la premessa dove si potrebbe decidere di monetizzare il debito se non in Giappone? Il Giappone è già il paese dove l’esperimento monetario ha visto la sua evoluzione più radicale, conosciuta come Quantitative and Qualitative easing (QQE). E poiché i risultati non sono certo entusiasmanti, e nel frattempo i debiti giapponesi sono cresciuti, non stupisce che nel suo paper Turner prenda proprio il caso giapponese come esempio di scuola per saggiare la fattibilità della sua analisi sulla monetary finance.
Ci troviamo di fronte alla situazione – scrive – nella quale i livelli globali di debito sono talmente alti che possono essere ridotti solo con un mix di diverse politiche: grandi svalutazioni palesi, significativi tassi negativi mantenuti per parecchi anni, monetizzazione dichiarata dei debiti pubblici esistenti”. Inoltre, aggiunge, “dobbiamo fare fronte alla sfida che proviene dal rischio di una stagnazione secolare che anche prima della crisi del 2007-08 aveva già prodotto una drammatica caduta nei tassi di interessi di lungo termine”.
Questi due fattori spiegano perché “l’applicazione dei normali tool non ha avuto successo nel condurre la domanda a livelli adeguati, per cui escludere la monetizzazione può seriamente limitare la nostra abilità di ottenere una crescita corrispondente al nostro potenziale”.
Questa convinzione conduce a quella dell'”inevitabile monetizzazione in Giappone”. Qui sette anni di politiche monetarie straordinarie non hanno impedito di avere una crescita cumulata negativa media negativa per lo 0.1% l’anno. Ma soprattutto il Giappone sta vivendo fin dal 1990 la situazione in cui si agita disperatamente da anni l’economia dei paesi avanzati. “L’esperienza giapponese dal 1990 al 2015 è stata un esempio estremo del pattern che ha interessato le altre economie avanzate sin dal 2008″, nota Adair.
In Giappone il debito privato corporate è diminuito dal 140% al 100% del Pil, ma solo al costo di far salire il debito pubblico dal 50% al 246% “e ancora cresce”. Di fronte a questa spaventosa accumulazione, il governo ha più volte promesso di voler ridurre i propri deficit fiscali e anzi di voler generare un avanzo primario, mentre una politica monetaria ultra espansiva avrebbe dovuto generare una crescita nominale della domanda sufficiente a portare l’inflazione al target del 2%. “Ma non c’è nessuna evidenza che suggerisca che tale politica sia credibile”, osserva Adair.
Sul versante fiscale, gli scenari elaborati dal Fmi mostrano che il paese dovrebbe cumulare inverosimili avanzi primari, nell’ordine del 5-6% fino al 2030, partendo da un deficit fiscale del 6,5% nel 2010, per avere un debito netto intorno all’80% del Pil e uno lordo del 200%. Ma poiché le previsioni del Fmi parlano di un deficit aggiustato per il ciclo ancora del 5,5% nel 2015, “ogni scenario che preveda di arrivare al 2020 con un surplus primario del 6% è chiaramente non credibile”. Anzi, il Fmi stima che si arrivi al massimo a contenere il deficit al 4,1%. Tale situazione, in cui incombe la minaccia di un consolidamento fiscale, non è proprio l’ideale nel momento in cui si cerca di stimolare la domanda privata.
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Dal lato monetario, il QQE giapponese ha portato la BoJ ad avere titoli di stato (JGBs) per un importo pari al 44% del Pil, e poiché la Banca centrale ha accelerato tali acquisti si prevede che arriverà al 95% entro il 2017. “In teoria (la teoria del QE, ndr) questi bond saranno a un certo momento rivenduti al settore privato, ma non è credibile pensare che possa succedere nei prossimi cinque anni”, tanto più in tempi in cui si parla di estendere ancora il QQE giapponese, visto che l’inflazione è ancora bassa, la crescita stenta e l’unica cosa che si prevede in aumento sono i debiti.
Previsioni-fiscali-e-monetarie-per-il-Giappone-600x362
Fonte: The Case for Monetary Finance – An Essentially Political Issue
Potrebbe sembrare che la BoJ abbia finito le munizioni – scrive Adair – ma non è così visto che la banca può raccomandare al governo che parte o tutti i bond detenuti possano essere convertiti in non redeemable non-interest-bearing asset”.
In pratica, in moneta.
Tale decisione, secondo Adair, non avrebbe conseguenze negative sulla solvency della BoJ, né sulla base monetaria, che comunque la BoJ sta già aumentando, e avrebbe effetti positivi di stimolo sulla domanda. Con la ciliegina sulla torta che il debito pubblico diminuirebbe anziché aumentare.
Ciò spiega le conclusioni dell’autore. La monetizzazione “è una politica senza dubbio tecnicamente fattibile e ci sono forti ragioni per credere che sarebbe desiderabile, e alcune variabili la rendono inevitabile: non ci sono strade credibili grazie ai quali il Giappone possa generare surplus fiscali sufficienti per ridurre i suoi debiti a un livello sostenibile. E se questo è inevitabile, sarebbe di sicuro meglio riconoscere questo fatto adesso e mettere in campo regole per arrivarci in maniera responsabile e non indisciplinata”.
Insomma, l’estremo giapponese e quello monetario potrebbero finire col coincidere. A tal proposito non è fuori luogo ricordare ciò che J.K. Galbraith scrisse nella sua Storia dell’economia, ricordando la banca di emissione immaginata per sostenere la produzione da Proudhon, “uno dei molti padri della grande e perdurante fede nella magia monetaria, ossia nella credenza che sia possibile compiere grandi riforme mediante interventi di manipolazione finanziaria o monetaria”.
“Ci sono alcune lezioni economiche che non si imparano mai, fra cui quella che si possano risolvere grandi problemi sociali senza sacrifici (..) Gli ingegnosi progetti monetari e finanziari si rivelano infallibilmente inefficaci, quando non si tratti di frodi ai danni del pubblico che non di rado si ritorcono sugli stessi che li hanno concepiti”.
Il problema è che la saggezza dell’esperienza serve poco di fronte alle seduzioni della magia.

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