sabato 30 gennaio 2016

Il trasformismo e il Partito della Nazione

Il partito non si lascia, anche se ha lasciato te.
Il partito non si lascia, nemmeno se fa il contrario di quanto aveva promesso – e fatto firmare agli elettori – in campagna elettorale.
Il partito non si lascia, nemmeno se fa le cose che il partito aveva contestato aspramente quando le faceva un altro partito.
Il partito non si lascia, anche se ti costringe a votare – in aula e al referendum – pessime riforme che non condividi.
Il partito non si lascia, anche se fa il plebiscito che a te non piace per niente.
Il partito non si lascia, nemmeno a Roma, dove commissario e notaio sono le due nuove figure politiche, che sostituiscono un sindaco eletto dai cittadini.
Il partito non si lascia, anche se ha distrutto il centrosinistra, dando la colpa agli altri (a chi, non si capisce, visto che decide uno solo, con il suo gruppo di amici).
Il partito non si lascia, nemmeno se il segretario assoluto ti «asfalta» e ti riduce a un non senso politico.
Il partito non si lascia, anche se ha già fatto patti e accordi che dichiari irricevibili.
Il partito non si lascia, perché non conviene.
Il partito non si lascia, perché non si sa mai.
Il partito non si lascia, perché poi magari cade un governo che ha fatto una non-riforma elettorale tipo Porcellum, ha attaccato diritti ritenuti fondamentali, ha perso consenso tra gli insegnanti, non ha sistemato i pensionati, ha fatto cose contrarie al buon senso (tipo elevare il livello del contante e tolto la tassa sulla casa dei benestanti, senza avere vere coperture per farlo, oltretutto), così il governo va avanti a fare lo stesso tipo di cose.
Il partito non si lascia, perché non si lascia il partito.
Anche se è cambiato, anche se governa con la destra, anche si allea con la destra, anche se ingloba la destra, anche se si trasforma in destra.
Il partito non si lascia, o forse sì: basterebbe un po’ di sincerità, verso se stessi, verso gli elettori, che magari lo hanno lasciato già.

Fonte: Possibile

venerdì 29 gennaio 2016

L’estate del 1964 (o giù di lì e oltre) – parte 3 di Sandro Moiso


bonasia 2 Don’t think twice, it’s alright
(Bob Dylan)
Oggi le manifestazioni, prima e durante gi eventuali incidenti di piazza, sono rumorose. A tratti isteriche. Mentre di quegli anni ricordo le facce tese, i timori, il silenzio.
Silenzio interrotto dalle sirene, dai botti dei lacrimogeni, delle molotov, degli spari di qualche agente e dagli ordini impartiti. Dall’una e dall’altra parte.
Lo scalpiccio sulla strada durante la rincorsa per l’assalto o la fuga.
Ai passamontagna di seta affidavamo il nostro anonimato, la nostra protezione. Al compagno o alla compagna che ci stava a fianco affidavamo la nostra salvezza. Quanti mantennero la promessa, come fece Riccardo con me? E quanti la tradirono? E con le telecamere sparse in ogni angolo di città, basterebbe ancora coprirsi il volto soltanto prima dello scontro?
Cordoni, compagni!” ed occorreva tenerli. Per pochi minuti o pochi secondi, non importava. Per fermare l’urto o, almeno, rallentarlo.
Per permettere ad altri di allontanarsi o di posizionarsi diversamente
Era la guerra. La guerra di classe di quegli anni.
Era la nostra azione di classe. Alla fine il lavoro politico di massa sfociava lì.
Così ci vollero le organizzazioni, per poi smentirlo nei decenni successivi.
Perché i leader fallimentari di allora potessero poi dire che il loro intento era stato altro. Sì, questa è una certezza: furono i leader a fallire, non noi.
Oggi forse non potrebbe più essere così.
Ora la violenza antagonista sembra scimmiottare un passato, forse, finito. Una violenza, anche solo difensiva, che sembra più preoccupata della propria autorappresentazione che della possibilità di dispiegarsi efficacemente.
Così assisto a marce e proteste pacifiche e ad arresti e fermi. Mentre la violenza dello Stato sempre uguale, sembra farsi sempre più cruda e senza limiti. Nemmeno di decenza.
Vedo assassini in divisa essere prosciolti da ogni colpa.
E vedo ancora processi in cui sono richieste pene terribili per atti di poco conto.
Ma devo chiedermi: i poteri hanno paura di una nuova esplosione di violenza o la vogliono causare? Vogliono ancora attirare in una trappola mortale i movimenti, come alla fine degli anni settanta?
D’altra parte se continuassi a credere che solo la nostra via era giusta, non rischierei di far come quei vecchi comunisti che, non riconoscendo nei movimenti che ho vissuto le stesse loro esperienze o le stesse loro iniziative, finirono col buttare il bambino con l’acqua sporca?
La scienza della Rivoluzione è una scienza di sistemi immobili oppure in movimento?
Dobbiamo rimanere ancorati per sempre ad un meccanicismo frutto del seicento e del positivismo oppure accettare il relativismo con cui la fisica cerca di fare i conti fin dall’inizio del Novecento?
Quante sono le variabili di cui i nostri predecessori non hanno tenuto conto?

Di cui noi, in passato, non abbiamo tenuto conto?
Lama 77Soltanto a partire dal movimento del ’77 si iniziò a ragionare in maniera diversa.
In termini di movimenti e non solo di classe.
Ma quella stagione fu troppo breve. Forse troppo pericolosa. Per tutti e per il PCI e il sindacato in particolare.
Che furono definitivamente, anche se per un breve periodo, esautorati. Come successe a Lama all’università di Roma.
La risata e lo sberleffo avevano costituito la cifra distintiva dei primi mesi di quell’anno.
L’anarchica e liberatoria risata destinata a seppellire burocrati e capitalismo sembrava aver preso il sopravvento insieme alla ricerca della felicità, senza limiti e senza remore.
Era stato ciò a spaventare inizialmente, più delle armi o degli slogan più truci.

Perché il riso corre spesso sulle labbra degli stolti, ma anche dei santi e dei pazzi.
Fummo un po’ tutto questo: illusi come gli stolti, limpidi come i santi e feroci come i pazzi. Ma tutto si legava.
Le nostre illusioni venivano dal sogno rivoluzionario che avevamo assorbito dalle generazioni precedenti; la nostra santità da Kerouac e dalla ricerca della vera felicità; la nostra pazzia dalla rabbia e dall’orrore per l’essenza di tutto quanto ci circondava ancora e dalla voglia di farla finita una volta per sempre con le differenze che ancora dividevano un mondo grigio ed infelice.
Di classe, genere, etnia, cultura e religione.
Cercando di superare un concetto limitato e, qui da noi, superato, come quello di classe operaia.
La comunità umana. La gemeinwesen del giovane Marx: ecco forse cosa cercavamo di realizzare. Un comunista francese1 la teorizzava già negli anni sessanta. Con la crescente proletarizzazione dell’esistente occorreva uscire dai recinti per comprendere la complessità. Così chi, oggi, punta soltanto sulle lotte operaie subirà una delusione.
Mentre chi usa le vecchie forme sindacali e politiche del movimento operaio come parametri per misurare l’efficacia delle lotte odierne o a venire, sicuramente, subirò ancora una sconfitta.
Scambiando ciò che non può più essere per ciò che dovrebbe essere.
Ma ciò che non è, è tale perché non è più adeguato.

L’Araba Fenice risorge per volare, se non lo fa e soltanto perché non può più farlo con quelle ali.
La storia, soprattutto quella delle lotte di classe, è un flusso.
La possiamo immobilizzare pirandellianamente in una forma soltanto nei libri. O nella retorica.

Ma nel farlo già la stiamo sovvertendo o falsificando. Per questo ho scelto questa scrittura disordinata. Il flusso di pensieri appartiene di più all’oralità che alla scrittura.
E più alla poesia che alla prosa.
sundance kid e butch cassidy Gli antichi, mentre emergevano dall’oralità pura, lo avevano capito.
Erano mica fessi. La prosa serviva a bloccare i dati contabili nei registri.
A fissare le leggi che dovevano dare stabilità ai regni. E al dominio di classe.
Ma la storia, gli dei e gli eroi dovevano essere cantati.
Cambiando l’interpretazione secondo la scelta di chi recitava, il pubblico che ascoltava o, ancora, la capacità mnemonica di chi ricordava. Creando, attraverso l’invenzione, la realtà del flusso della vita. E dei suoi infiniti cambiamenti.
Poi si stabilizzò tutto con un nome: Omero, mai esistito. E abbiamo continuato a fare così.
A fissare la varietà della produzione intellettuale in pochi grandi nomi.
Marx, senza le lotte che gli avevano permesso anche solo di pensare ad un altro mondo.
Shakespeare, senza le improvvisazioni teatrali delle compagnie girovaghe, copiate a loro volta dalle storie narrate per strada. O nelle sale segrete delle ricche dimore.
E poi gli orrori assoluti: i testi sacri, di qualsiasi religione.
Che fissavano nell’uomo l’erede di Dio e il dominatore della natura.
Che di per sé è indomabile. Che può essere distrutta e devastata, ma non domata.
Erano arrivati i testi della vendetta, divina ed umana.
I testi che sono diventati il modello per ogni nuova religione, politica o scientifica che sia.
I dieci comandamenti.
Della chiesa, degli stati, dei partiti, dell’economia basata sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e degli uomini.
Che stabilizzavano forme di schiavitù, vecchie o nuove, per poi fingere di combatterle.
Spazzando via le religioni animistiche e il riconoscimento materialistico delle forze reali che agitano il mondo.
Un altro comunista2, più vecchio, aveva teorizzato che il comunismo avrebbe riunito, con un arco millenario, le prime comunità umane, prive di proprietà e di stato, con quella del futuro.
Oggi mi sembra diventata fondamentale ogni lotta in cui la difesa degli interessi economici della maggioranza della specie umana si ricolleghi alla difesa del territorio, dell’ambiente e della salute. Ogni lotta che tenda a superare le differenze di genere ed etnia è oggi proiettata verso il futuro, se condotta a livello di massa, mentre, anche se la contraddizione tra lavoro e capitale resta essenziale, chiudersi nelle fabbriche e nei particolarismi, per rivendicare un lavoro che non c’è più, non porterà più da nessuna parte.
E che, ricordiamolo bene, imparammo fin dagli anni settanta a rifiutare.
Il lavoro salariato ha contraddistinto l’800 e il ‘900. Farne ancora un verbo per il XXI secolo sarebbe suicida. Non l’avevano capito solo l’autonomia o l’operaismo.
Già nel 1890, in una lettera indirizzata al Congresso della Socialdemocrazia tedesca di Halle, Antonio Labriola aveva scritto che non avremmo mai più dovuto rivendicare il diritto al lavoro, base di ogni cesarismo. Occorre saltare oltre la società basata sullo sfruttamento e l’accumulazione di profitti. E non sono convinto che lo si possa fare soltanto in nome della classe operaia.
Perché è la specie nella sua interezza a non poter più convivere con il capitale.
bonasia 3Scriveva un giovane Engels nel 1844-45: ”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tutte le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere”.
Che dire oggi, quando la vita della maggioranza assoluta ha perso qualsiasi valore e dignità umana?
Quando i primi 85 Paperoni possiedono l’equivalente di ciò che possiedono gli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e di uomini? Cos’è oggi la classe?

Quali sono le forme politiche ed organizzative in cui potrà esprimere meglio il suo progetto di liberazione?
La domanda resta aperta e, come sempre, sarà soltanto il divenire delle lotte a fornire le risposte più utili ed efficaci.
L’unica cosa sicura è che non esistono verità e certezze assolute. D’altra parte anche le grandi verità storiche rischiano nel tempo di assumere la fissità della morte. Se la vita è cambiamento, e i movimenti reali ne hanno da sempre costituito la testimonianza, ogni ipostatizzazione formale degli avvenimenti che hanno di volta in volta trasformato e modificato, anche radicalmente, la realtà sociale non può che corrispondere ad una scelta conservatrice e, sostanzialmente, controrivoluzionaria. I regimi e le tirannidi, così come le sette, hanno sempre avuto bisogno di verità assolute, di continuità e tradizioni reinventate, la comunità umana in divenire no.
Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (Ideologia tedesca – Karl Marx e Friedrich Engels, 1846)
FINE
  1. Jaques Camatte, Il capitale totale, Dedalo 1976 e Verso la comunità umana, Jaca Book 1978  
  2. Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo socialeAmadeo Bordiga

giovedì 28 gennaio 2016

Benigni, quel che resta di lui di Andrea Scanzi

Roberto Benigni
Leggo che Benigni, quello che anni fa in tivù recitava i suoi sermoni laici sulla sacralità della Costituzione, voterà sì al referendum che vuol sancire lo sfascio della Costituzione di cui sopra: quando si dice la coerenza.
Caro Roberto, ti ho voluto bene, e tutto sommato sempre te ne vorrò, perché certe tue cose resteranno: dal Cioni Mario a tutti gli Ottanta, fino al tuo ultimo apice La vita è bella. Siamo pure concittadini, e fino a un certo punto ce l’hai avuto eccome quell’approccio da guastatore toscano, da provocatore sboccato: da pazzo tanto esilarante quanto (in realtà) lucidissimo. Per carità: non potevi fare sempre la stessa cosa, e mettersi a toccare la “patonza” della Carrà a sessant’anni sarebbe stato un po’ ridicolo. Lo so. E pazienza – voglio essere buono – se un tempo prendevi in braccio Enrico e poi Mastella. Pazienza.
Qui però non siamo più all’incendiario che si fa pompiere: siamo al satirico che si fa mesto turibolo del Potere. Siamo al guitto che rinuncia totalmente al suo ruolo: e questa, per un artista, è la colpa più grave. Perdonami, ma vederti passare da “Berlinguer ti voglio bene” a “Renzi mi piaci tanto”, o dal “Woytilaccio” che fu all’attuale “Volevo fare il Papa da grande”, mette una tristezza che non hai idea. Lo scrivo con dolore, senza dimenticare l’affetto e la gratitudine, ma in tutta onestà era difficile per te invecchiare peggio di così. Peccato.

martedì 26 gennaio 2016

Siamo di nuovo alla vigilia di una crisi globale? di Aldo Giannuli

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Tariffe elettriche, con la riforma le bollette diventano più care? di Mario Agostinelli

bolletta 675
Secondo una prassi che ci propina ad ogni alzata dal letto qualche modifica imprevista sulle tariffe o sui risparmi bancari o sull’entrata in vigore della pensione, dal primo gennaio sono state varate le nuove tariffe per l’energia elettrica. Come sempre, strombazzate la sera prima come un colpo di fortuna per i consumatori. Esaminiamone qui la ratio e gli effetti per 30 milioni di utenti e, infine, traiamone le conclusioni. (Per un’analisi dettagliata e i grafici illustrativi, Roberto Meregalli su energiafelice).
Come nei riti migliori, è stata introdotta una nuova veste grafica della bolletta: potremo così fare il confronto con quella dei nostri amici e non sfuggirà certo la “rivoluzione” che la denota: l’abbandono del sistema progressivo (ossia un sistema per cui il costo per kWh aumenta all’aumentare dei kWh prelevati dalla rete elettrica) in vigore sino ad oggi. Fino al 2015 il costo dell’energia di un kWh consumato da un cliente che in un anno ne consuma in totale 1.500 è diverso da quello di un cliente che ne consuma 2.700: in base ad un sistema di tariffazione che favoriva chi consumava poco, facendo pagare di più oneri e trasporto a chi consumava di più. Possiamo dire che quell’impianto tendeva a stimolare consumi ridotti. Con la riforma, per i clienti residenti (la maggioranza), la struttura degli oneri di sistema rimane fissa per kWh, qualsiasi sia il livello di consumo.

Tutti (tranne le seconde case) pagheranno un eguale contributo fisso per coprire gli oneri del sistema, indipendentemente dal possesso di impianti in proprio e dalla fascia di consumo. Viene cioè penalizzato chi ha installato un piccolo impianto fotovoltaico, mentre viene premiato chi consuma di più invece di risparmiare energia. Per essere chiari, chi ha sostituito le lampadine a incandescenza con quelle a led, o chi ha investito negli ultimi anni in un impianto solare rischia di non aver fatto un buon affare.
L’abolizione della progressività viene giustificata dall’Authority “per favorire l’elettricità rispetto ai fossili e liberarla da vincoli ereditati dal passato”. Tutto bene, se l’elettricità non provenisse a sua volta per la gran parte dalla combustione in centrale di gas carbone o olio. Al solito, nonostante le indicazioni fornite dall’Ue e dalla Cop21 – miranti a favorire anche attraverso le tariffe la decarbonizzazione e la produzione elettrica decentrata da rinnovabili – ministero e governo hanno partorito il compromesso più vantaggioso per il sistema energetico in auge. Difensori ad oltranza di un modello arcaico che penalizza il mercato della generazione distribuita e dell’efficienza energetica, favorendo la generazione centralizzata di energia.
Alla fine, per il consumatore tipo ci dovrebbe essere un aumento di circa 20 euro l’anno: per chi consuma meno un aumento maggiore e per chi consuma di più un risparmio. Ricordando che oltre l’81% degli attuali utenti (circa 24 milioni) ha consumi inferiori a 2.640 kWh/anno, in effetti per la maggioranza la riforma si tradurrà in una bolletta più cara.
Per chi ha installato negli anni scorsi un impianto fotovoltaico, questa riforma avrà effetti negativi perché la nuova tariffa sarà meno conveniente rispetto a quella attuale. Questo “effetto collaterale” è rilevante perché ufficialmente la riforma dovrebbe favorire le fonti rinnovabili. Stimolare l’aumento dei consumi elettrici ha senso solo aumentando la generazione di elettricità da FER, solare in primis, essendo la principale risorsa nazionale. Altrimenti, come sta accadendo quest’anno, l’aumento della domanda si traduce in un aumento dell’uso delle fonti fossili e delle relative emissioni. La riforma in definitiva sfavorisce il risparmio energetico e le rinnovabili elettriche, mentre risulta chiaro che si stabilizzano i ricavi dei distributori perché i loro costi saranno fissi, non più dipendenti dalla variabilità dei consumi.
Contestualmente, è stata approvata anche la legge (539/2015) che regolamenta la realizzazione e l’uso di reti private di distribuzione. Anche per questa via si penalizza lo sviluppo di reti intelligenti e i sistemi di stoccaggio e si assesta un duro colpo per le rinnovabili, che richiedono reti intelligenti, capaci di dosare e compensare gli input di energia. Sulla gestione delle reti, si gioca una grande partita per la transizione energetica, ma non è certo un governo intrecciato alle lobby del passato che può affrontare le sfide del futuro.

lunedì 25 gennaio 2016

Ma l’Occidente ha capito chi è davvero Erdogan?

erdoganCome riciclare Erdogan? Per condurre questa operazione Obama ha scelto il suo vice Biden che un anno fa aveva accusato il presidente turco di essere connivente con l’Isis, per poi scusarsi sia pure con qualche incertezza. C’è da chiedersi se gli Stati Uniti, l’Europa, il cosiddetto Occidente, esistano ancora come nozione politica, morale o anche soltanto geografica. Più di un dubbio viene spontaneo dopo la visita del vicepresidente americano Joe Biden in Turchia.
Biden sostiene che gli Stati Uniti sono pronti a fare la guerra con la Turchia contro il Califfato. Anche i sassi della provincia di Antiochia sanno che Erodgan ha fatto passare migliaia di terroristi sull’”autostrada della Jihad” per abbattere Assad. E tutti abbiamo visto che gli Stati Uniti ben poco hanno fatto per combattere l’Isis negli ultimi due anni, al punto che non avevano neppure opposto un’obiezione quando il Califfato aveva conquistato Mosul nel giugno 2014. Se non avessero tagliato la testa a un cittadino americano, sollevando l’ira dell’opinione pubblica, Washington avrebbe lasciato fare.
È comprensibile che gli americani cerchino adesso di recuperare un alleato della Nato, lo stesso che peraltro ha esitato mesi prima di concedere la base aerea di Incirlik per i raid contro lo Stato Islamico e quando lo ha fatto ha preferito bombardare i curdi del Pkk e anche quelli siriani piuttosto dei jihadisti.
Biden ha fatto una distinzione tra il Pkk e Pyd, le forze curde siriane anti-Isis, gli eroi di Kobane per intenderci, ma questo non basta. Come non è sufficiente aver detto che la Turchia non rispetta gli standard democratici mettendo in carcere giornalisti e intellettuali. Il vicepresidente americano sta cercando di sommare le pere con le mele, come si diceva alle scuole elementari. Cioè tenta di salvare la capra, ovvero il ruolo di Erdogan nella Nato, e i cavoli americani, la palese contraddizione di avere condotto una finta guerra al Califfato che ha aperto le porte all’intervento della Russia a fianco del regime di Damasco.
Agli Stati Uniti adesso serve un autocrate come Erdogan, complice dei jihadisti, non per fare la guerra all’Isis ma per contrastare Putin in Siria. La realtà è che la Turchia ricatta gli Usa con la minaccia russa per ottenere un pezzo di territorio siriano che finora non è riuscita a conquistare servendosi del Califfato.
È con questa bella compagnia, con queste idee brillanti, che facciamo la lotta all’Isis e ci prepariamo ai negoziati di pace sulla Siria dove dobbiamo fare accomodare i rappresentanti del terrorismo che piacciono ad Ankara e Riad. Siamo amici e alleati di coloro che ci mettono le bombe in casa, che hanno distrutto interi Paesi, provocato milioni di profughi e che alimentano la propaganda islamista radicale: ecco siamo noi i “nuovi” occidentali.
Alberto Negri - ilsole24ore.com

domenica 24 gennaio 2016

Pd, la recita del dissenso di Alberto Burgio

È sistematico: ogni volta che si approfondisce lo scontro sul governo, il conflitto nel Pd si surriscalda. Ed è altrettanto sistematico che la minoranza dem, la sedicente sinistra interna, alzi la voce e minacci sfracelli. Per poi pentirsene e allinearsi obbediente.
I fatti, innanzi tutto. La Direzione nazionale del Pd, riunitasi venerdì 22, segue l’ennesima grave decisione della minoranza interna, quella di votare compatta in senato lo scempio della Costituzione, fornendo al governo — insieme ai senatori verdiniani — un contributo indispensabile (una ventina di voti) all’approvazione della controriforma. È stato un gesto clamoroso di sostegno al governo e al suo capo, dopo una settimana nera per Renzi, in gravi difficoltà per lo scontro politico generale sui diritti delle coppie omosessuali e per il profilarsi di qualche seria sconfitta alle prossime amministrative. 
Non solo. La «sinistra» del Pd ha soccorso il presidente del Consiglio proprio nel momento di massima sofferenza per lo stringersi di una micidiale tenaglia: da un lato l’attacco di Juncker per le critiche italiane all’austerità europea; dall’altro lo stillicidio di indiscrezioni e il procedere della talpa giudiziaria in merito alle vicende bancario-corruttive di Arezzo, che vedono pesantemente coinvolti pezzi del cerchio magico renziano e figure di rilievo degli entourages famigliari del ministro per le riforme e dello stesso presidente del Consiglio.
Nella riunione della direzione la minoranza ha lamentato la mancanza di «agibilità politica» nel partito, ha posto la questione del doppio ruolo del segretario-premier, che lo indurrebbe a trascurare il lavoro nel partito, e ha attaccato per i voti dei verdiniani in senato, che comportano a suo giudizio un allargamento della maggioranza incompatibile con la vocazione riformista del Pd. Come se nella maggioranza non ci fosse già Alfano. Come se, considerato il merito delle «riforme» in questione, l’alleanza con Verdini non fosse più che appropriata. Quanto al merito di una controriforma che stravolge la Costituzione cambiando di fatto la forma di governo, di questo non si è parlato, non era all’ordine del giorno. Del resto Cuperlo ha rivendicato di averla votata adducendo il fine argomento che, se anche la «riforma» è pessima, «fallire in questo tentativo produrrebbe una frattura ancora più grave tra i cittadini e le istituzioni». Perfetto. Un capolavoro di logica gesuitica che permette già di intuire come la «sinistra» del Pd si muoverà in occasione del referendum confermativo, del quale pure oggi osteggia la connotazione plebiscitaria imposta da Renzi.
Con ogni evidenza, al di là di ogni sofisma, la «sinistra» dem ha un solo problema: teme di contare domani ancora meno di oggi. Ovviamente è legittimo che se ne preoccupi. Il punto è come cerca di difendere e di rafforzare le proprie posizioni.
Che cosa fa la minoranza del Pd? Ventila «spaccature» (altre inverosimili microscissioni) e avanza timidamente, fra le righe, la richiesta di un congresso anticipato, vagheggiato come la resa dei conti in cui inverare finalmente la strategia bersaniana: riprendersi il partito; quindi, da posizioni di forza, condizionare il presidente del Consiglio.
Il punto è che a rendere improbabile questo disegno è proprio la «sinistra» dem, che ogni qual volta Renzi si trova in difficoltà evita di attaccarlo e anzi corre in soccorso del governo ogni qual volta c’è bisogno dei suoi voti. Giacché è chiaro a tutti: Renzi potrebbe accettare di andare al congresso prima del 2017 solo nel caso di una crisi di governo, proprio quella crisi di cui la «sinistra» dem, naturalmente per «senso di responsabilità», non vuole nemmeno sentir parlare.
E così, da quasi due anni a questa parte, si ripete lo stesso copione. Sussurri, grida e niente di fatto. Col risultato che, intervenendo in direzione, Renzi non ha nemmeno risposto a chi lo aveva criticato per l’intesa con Verdini chiedendo a gran voce «parole chiare» sulle strategie del partito. Ridicolizzandolo.
Come commentare tutto questo? Ci sono due possibilità: o la «sinistra» del Pd non ha ancora capito Renzi e non decifra il conflitto con lui, dal quale per questo esce sistematicamente sconfitta; oppure ha capito benissimo, e tutta questa è soltanto una commedia in cui la minoranza dem recita la propria parte in modo da non creare problemi al governo (e a se stessa) e da non perdere altri pezzi e altri voti a sinistra. Quest’ultima è senz’altro l’ipotesi più probabile, e del resto in essa vi è indubbiamente una razionalità.
I Cuperlo, gli Speranza, i Bersani salvaguardano il proprio ruolo, anche se dentro una dialettica virtuale e astratta. E, con il puntuale aiuto dei media, mantengono viva una finzione che permette ancora al Pd di presentarsi al paese, nonostante ogni evidenza, come un partito «di sinistra». Ma si tratta di una razionalità ben misera, a fronte delle conseguenze che la loro azione produce.
Al riguardo non c’è da inventarsi nulla, basta stare sobriamente all’evidenza delle cose. In poco meno di due anni il governo Renzi ha dato alla luce una sequenza di «riforme» devastanti negli assetti istituzionali della Repubblica, nel mercato e nei diritti del lavoro dipendente pubblico e privato, nella struttura materiale del welfare, nella distribuzione della ricchezza nazionale. A conti fatti, la «sinistra» del Pd ha sempre sostenuto queste scelte, a tratti recalcitrante, spesso silente, sempre al dunque ossequiosa e cooperante. Mettendo in scena un conflitto interno fine a se stesso. Mostrando in definitiva di non esserci. E dando per questa via il contributo di gran lunga più cospicuo al consolidarsi della nuova specificità italiana: quella di un paese che da tempo non annovera sulla scena politica nazionale alcuna forza credibile dalla parte dei diritti sociali e del lavoro.

sabato 23 gennaio 2016

Il destino dell’Italia nelle mani dei mercati


cliff-jump-1024x806«Il Monte dei Paschi oggi è a prezzi incredibili. Penso che la soluzione migliore sarà quella che il mercato deciderà. Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma chiunque verrà farà un ottimo affare… Gli eventi di queste ore agevoleranno fusioni, aggregazioni, acquisti. È il mercato, bellezza». Così il premier Matteo Renzi in un’intervista al direttore del Sole 24 Ore ha risposto sulla profonda crisi che sta attraverso il sistema bancario italiano.
Si tratta di una dichiarazione gravissima, che riflette in maniera drammaticamente chiara l’ideologia iper-mercatista del nostro primo ministro. In sostanza, quello che Renzi sta dicendo è che nel bel mezzo della crisi più grave nella storia dell’unità d’Italia, in cui la già fragilissima economia del nostro paese rischia di ricevere il colpo di grazia da una crisi bancaria che sembra ogni giorno più probabile, a causa dell’austerità europea edelle assurde regole dell’unione bancaria, ma anche di evidenti casi di mala gestione; in cui avremmo bisogno di un intervento deciso di politica pubblica che non si limiti a stabilizzare la situazione bancaria (anche se questo già sarebbe qualcosa), per esempio attraverso la nazionalizzazione di MPS, ma utilizzi tutti gli strumenti che il governo ha a disposizione – per quanto limitati, per le ragioni che conosciamo tutti – per rilanciare l’occupazione e risollevare un’economia che ogni giorno che passa dimostra in maniera sempre più evidente di non essere assolutamente in grado di risollevarsi da sé (per ragioni che ormai dovrebbero essere evidenti a tutti, a partire dalla carenza di domanda); ecco, in una situazione come questa, Renzi ritiene che sulle sorti del terzo gruppo bancario italiano, nonché della banca più antica del mondo – da cui ovviamente dipendono le sorti di tutto il sistema bancario italiano, e con esso dell’economia nel suo complesso – è giusto, addirittura “naturale”, che a decidere siano… “i mercati”.
Raramente il dogma neoliberista secondo cui i mercati sono perfettamente razionali e sempre in grado di “aggiustarsi” da sé (con lo Stato relegato al massimo al ruolo di “tappabuchi”, come nel caso dell’approvazione in extremis da parte del governo del piano per le bad bank, stabilizzando, per ora, il titolo MPS) è stato espresso in maniera così franca. Si tratterebbe di una dichiarazione irresponsabile (oltre che empiricamente falsa) anche se le turbolenze di queste giorni fossero effettivamente imputabili a “semplici” dinamiche di mercato; ma vi sono solide ragioni, come ipotizzato nei giorni scorsi anche dal Sole, per sospettare che quello in corso sia un vero e proprio assalto speculativo contro le nostre banche, finalizzato a facilitare il trasferimento a prezzi di liquidazione di pezzi importanti del nostro sistema bancario nelle mani del capitale finanziario internazionale («Mi piacerebbe tanto fosse italiana, ma…»), ma probabilmente anche di qualche speculatore nostrano come il finanziere Davide Serra, amico del premier, che ha già dichiarato il suo interesse ad investire in MPS.
Questo sembrerebbe confermare quanto scritto su queste pagine in queste settimane (vedi qui e qui), ossia che l’unione bancaria entrata vigore il 1° gennaio 2016 spianerà – sta già spianando? – il terreno ad un processo di “centralizzazione” dei capitali bancari in Europa, ossia ad un processo generalizzato di liquidazioni e acquisizioni delle banche dei paesi più deboli a favore delle banche dei paesi relativamente più forti, che costituisce forse l’aspetto più rilevante dell’attuale tendenza alla “mezzogiornificazione” dei paesi periferici dell’eurozona. A tal proposito, è interessante notare che uno dei primi effetti dell’introduzione dell’unione bancaria sembra essere proprio la fuga di grandi quantità di capitali (depositi) dall’Europa meridionale, specialmente l’Italia, verso le banche tedesche, lussemburghesi e olandesi. Ma cosa possiamo farci? Sono “i mercati” ad aver deciso così.
 
Thomas Fazi - www.eunews.it

Sulla quistione Checco Zalone

di Mauro Baldrati, Carmillaonline.com
quo-vado-checco-zaloneIl film, di per sé, non si presta a recensioni che non siano schede leggere degli eventi e delle gag. E’ la sua natura. Per cui creano imbarazzo certe disamine di critici e intellettuali generalisti, nelle quali si analizzano addirittura i simboli del film, e, con dissertazioni alquanto complesse, persino i “difetti”. Il lettore prova disagio per gli autori di questi saggi su Quo Vado?. Prova imbarazzo perché non può non pensare: quanto pensiero sprecato!
Questi, infatti, sono gli aspetti più interessanti della suddetta quistione: la corsa all’oro della recensione di un’opera che non si presta al gioco, che addirittura non l’accetta, perché non possiede il know how adeguato, né si pone il problema di possederlo. La spiegazione, l’analisi dell’analisi, sta nel senso dell’olfatto. Sì, l’odore. Quando un’opera sprigiona l’aroma fragrante del “pop” parte l’assalto. Tutti si precipitano su quel magnifico fiore dischiuso per succhiarne il nettare, offrendogli la diffusione del polline e al contempo godendo del suo frutto, che costituisce un nutrimento prezioso.
L’effetto di questa forma di migrazione mediatica infatti è duplice: da un lato si contribuisce alla propagazione dell’opera e si potenzia la sua forza dirompente, attraverso la moltiplicazione dei titoli, delle immagini, delle opinioni (che spesso coincidono, in una sorta di coro omogeneo), e, ovviamente, delle lodi, che qua e là assumono toni estremi. Dall’altro si succhia la sua aggressività pop, si avvicina la propria “griffe” al fenomeno del momento. Insomma, proprio come quando ci si fa fotografare abbracciati al cantante famoso, all’attore famoso, allo sportivo famoso, al politico famoso.
Ecco quindi commenti irritati su chi osa mettere in dubbio la verticalità artistica-filosofica dell’opera-evento. Ecco i più opportunisti degli opportunisti, i politici, cercare di insinuarsi nella scia della nuova cometa pop: il “ministro” e “scrittore” Franceschini; il “Presidente del Consiglio”; Salvini (Zalone ministro della cultura), e così via.
Questo atteggiamento, ovviamente, non è riservato solo a Zalone, ma a tutte le stelle del firmamento pop, dove la più luminosa è certamente il papa. Woityla, e oggi Francesco, sono i massimi campioni, verso i quali i media si lanciano all’assalto con toni parossistici.
Ma come mai un’opera o un personaggio diventano dei campioni pop? Le interpretazioni si accavallano, ma sono deboli e approssimative. Oltre che sulla filologia del film, molti commentatori si sono scervellati per spiegare le motivazioni del successo monstre di Quo Vado? E’ un film per tutti, è un’occasione per andare al cinema con lo zio, la nonna; e’ un buon motivo per ridere tutti insieme, per unire le famiglie disaggregate. Soddisfa la voglia di leggerezza in un paese intristito dalla crisi. Cose così.
Ma una causa-effetto importante sfugge. O forse non sta bene rilevarla, perché appesantisce la lirica del personaggio-evento, ed è la potenza mediatica di cui dispone. E’ piuttosto difficile diventare un campione pop se i media non si impegnano. Il papa dice cose sulla giustizia, la povertà, la fratellanza, la modestia, dall’alto di una delle più grandi multinazionali del pianeta, con un fatturato di miliardi e interessi nella finanza, l’edilizia, l’istruzione, la sanità, la politica. E il film di Zalone è prodotto da Mediaset (Medusa e Taodue), che ha la proprietà della maggioranza delle sale cinematografiche. E’ stato distribuito in 1.500 copie, quasi il doppio di Guerre Stellari. Si hanno notizie di piccole città, soprattutto del Sud, dove l’unico film proiettato era Quo Vado? E di persone che in certi cinema non sono riuscite a raggiungere la cassa per la fila chilometrica di Zalone. L’eroismo pop non è immune dall’imposizione del suo modello. Non è così puro. Non è così poetico.
E il film?
Come premesso, non si presta a un’ennesima analisi impegnata, ma neppure a una stroncatura. Per citare il menu di certe macchinette per il caffè, che offrono una “bevanda a base di caffè”, è uno “spettacolo a base di comicità”. Fa ridere, alcune gag sono molto divertenti. Usa con abilità i luoghi comuni italici, il posto fisso, l’italiano nel mondo, i norvegesi, l’uomo maschio, la donna, con l’immancabile finale etico-buonista. Zalone è bravo, e la sua imitazione di Gramellini (non nel film, ma in televisione, da uno che nell’adulazione del successo pop è un Grande Maestro, Fabio Fazio) per dire, è spassosa.
Che altro?

Euforia nelle borse. Perché non è una buona notizia il “rimbalzo del gatto morto”.

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Gli articoli sulla giornata di giovedì in borsa sembrano bollettini della vittoria:
< Vigoroso recupero del petrolio (+3,9% il Wti a 30,69 dollari al barile e +4,6% il brent a 30,59 dollari al barile) permettono un avvio di seduta ancora brillante… Borsa di Tokyo, con l’indice Nikkei che ha guadagnato oggi 941,27 punti (+5,88%) a quota 16.958,53… in netto rialzo tutte le altre borse asiatiche: in Cina l’indice Composite di Shanghai guadagna in questi minuti l’1,40%, mentre quello di Shenzhen quasi l’1,70%. Ancora meglio fa Hong Kong, con lo Hang Seng che viaggia a +2,90%. Bene anche il sudcoreano Kospi (+1,95%), il Sensex indiano (+1,80%) e la Borsa di Sydney (+1,10%)…rimbalzo tecnico sulle soglie minime toccate mercoledì e la spinta arrivata dalla Nce, con l’apertura a nuove misure di sostegno all’inflazione>>
Insomma, nel giorno di San Mario, Draghi ha fatto il miracolo e la crisi sembra essersi fermata, i titoli delle banche italiane salvati, il petrolio risalito e l’euforia estesa sino al confine dell’Asia. E per di più, l’uomo di Francoforte non ha detto molto, ha solo annunciato piuttosto genericamente che fra un mese e mezzo la Bce passerà ad una politica monetaria espansiva di cui si ignorano i dati. E tanto è bastato.
Non sarà un po’ esagerato? Anche perché, per una banale questione di fusi orari, la giornata borsistica inizia in Giappone e poi in Cina, cioè le borse più lontane dall’Europa, dove si immagina che l’annuncio draghesco abbia avuto un effetto così vistoso.
In effetti anche il pezzo di Repubblica da cui abbiamo tratto i brani su riportati, parla di “rimbalzo tecnico”. Di che si tratta? L’andamento dei mercati di borsa, salvo momenti particolarissimi, non è mai rettilineo e procede, semmai, a balzi di canguro. In particolare è noto che dopo un forte calo in borsa, c’è sempre un recupero più o meno vistoso e dipende essenzialmente dal gioco dei ribassisti che offrono determinati titoli a prezzi sempre più bassi, e questo contribuisce a tirare giù il titolo presi di mira, ed in genere vendono allo scoperto. Ovviamente, quando essi stessi valutano che il titolo ha raggiunto il massimo punto di ribasso, provvedono ad acquistare i titoli da dare a chi li ha acquistati, incassando il differenziale fra i prezzo di vendita al momento dell’ordine e quello al momento della consegna. E questo, normalmente, determina la ripresa del titolo. Ci sono momenti in cui i ribassi sono generalizzati e questo favorisce la speculazione, determinando, peraltro, recuperi più o meno generalizzati. Dunque, un certo recupero a tratti è fisiologico.
Una ventina d’anni fa, ci fu un economista (credo di Singapore, se la memoria non mi inganna) che disse che “Gettato dall’alto di un palazzo rimbalza anche un gatto morto”. Che può dare l’illusione di essere vivo e guizzante, ma poi torna a cadere e resta morto, intendiamoci!
Nel caso specifico, è realistico che la tendenza abbia subito una inversione a partire dalla ripresa del petrolio dovuto allo stesso meccanismo ribassista e si sia sommato all’”effetto Draghi”.
Quindi, la “notizia” non c’è: si è trattato solo di una normale oscillazione di borsa come ce ne sono tante senza che, per questo, si alterino le tendenze di fondo del mercato.
Qui però c’è un aspetto che merita d’essere analizzato meglio: la pronta ripresa ed il rimbalzo contemporaneo in tutte le borse euro-asiatiche. Il che segnala una forte interdipendenza globale delle borse. Non ricordo (anche se posso sbagliare) episodi segnati da una tale simultaneità. E, dato che i giochi speculativi riprenderanno, esattamente come le tendenze di fondo, che non sono affatto di segno positivo, questo fa presagire un effetto domino rapidissimo. Se il rimbalzo di questo We ci ha dato un momentaneo beneficio globale, quando tornerà l’ondata ribassista, lo stesso effetto domino sarà un moltiplicatore formidabile del disastro. Ecco perché quella di giovedì non è affatto una notizia buona ma il preannuncio di una pessima.
Perchè i guai dell’economia reale sono ancora lì sul tappeto, tutti quanti. Negli anni settanta c’era una discutibilissima tendenza (in gran parte alimentata dal sindacato e dall’area di giornalisti ed intellettuali vicini) per la quale quello che contava erano gli indici occupazionali e salariali, i consumi e basta, mentre delle tendenze di borsa non interessava niente. Polemizzò con questo modo di pensare Cesare Merzagora che, giustamente, fece notare che economia e finanza non sono separabili e che l’economia non può fare a meno della finanza. Ero un giovane gruppettaro un po’ estremista ma devo confessare che, pur capendone pochissimo, ebbi la sensazione che il vecchio finanziere (uomo di destra) non avesse poi tutti i torti.
Oggi c’è una tendenza opposta ed ancora più scriteriata, per la quale la finanza può disinteressarsi dell’andamento dell’economia reale, perché ormai il denaro produce denaro senza passare per la merce; per cui se l’occupazione è ai minimi da 45 anni, i consumi precipitano, i salari sono da società schiavista, tutto questo non importa se l’indice Nikkei o il Vix sono a valori positivi. La prima, era una idea stupida, perché non capiva che l’economia reale senza il servizio della finanza non va avanti, ma la seconda è folle perché immagina una finanza autosufficiente campata in aria, che può crescere su se stessa senza svolgere la sua funzione servente nei confronti dell’economia reale. Quella finanziaria non è ricchezza reale, ma virtuale, e la realtà ha sempre la testa più dura di qualsiasi virtualità.
E fra un po’ che ne accorgeremo.
Aldo Giannuli

Forze armate, le larghe intese soffocano i diritti dei soldati di Toni De Marchi

Soldati italiani in guerra
Litigano su quasi tutto. Litigate trasversali. Litigate intragruppi e intergruppi. Litigano alla Camera e litigano al Senato. Ma si trovano (quasi) tutti d’accordo sulle grandi questioni patriottiche. Una prova? Un emendamento al decreto passepartout opportunamente battezzato milleproroghe, che rinvia di un anno il rinnovo delle rappresentanze dei militari. Emendamento monstre non tanto per le dimensioni quanto per l’inusitato numero di firmatari (ben tredici) in rappresentanza trasversale di quasi tutti i gruppi parlamentari. Sette su tredici sono del Pd (un piddino, Giovanni Falcone, per stare sicuro ha presentato da solo anche due ulteriori emendamenti di proroga: un vero entusiasta), gli altri si sparpagliano tra Sel (!!), Area popolare, Forza Italia. Un grande abbraccio nazional-patriottico al quale si sono sottratti solo i Cinque Stelle, la Lega Nord (immagino con motivazioni diverse) e alcuni del confuso firmamento delle componenti del Gruppo misto: oggi sette, di doman non v’è certezza.
Mi rendo conto che a prima vista una proroga di un anno di un organismo militare possa sembrare questione di scarso rilievo. Ma non lo è. Non tanto perché questa sarebbe la terza proroga dal 2010. Quanto perché una proroga va a incidere sulla credibilità stessa della rappresentanza, che di proroga in proroga non rappresenta più se non se stessa. Tra l’altro ogni volta le proroghe sono state motivate con l’imminente conclusione di una riforma che non arriva. Nell’Italia del provvisorio permanente, è da quando la rappresentanza militare è nata che la si vuol riformare.
Un passo indietro, ad usum del colto pubblico e dell’inclita guarnigione (siamo in tema). La rappresentanza militare nacque nel 1978 dopo anni di clamorose battaglie dei militari, soldati di leva ma anche sottufficiali e alcuni ufficiali. A quel tempo chiamavamo i militari “cittadini in divisa”. Erano altri anni. Adesso c’è invece qualcuno che sogna di mettere le divise ai cittadini. Sissignori, all’armi, all’armi/per chi in truce assenteismo/disvaluta l’eroismo/di chi forza l’avvenir!
La rappresentanza militare, pur con tutte le contraddizioni di un organismo embedded come diremmo oggi, ha dato per un po’ voce al sentire dei cittadini in divisa. Voce, a dire il vero, sempre più flebile mano a mano che si sono perse di vista le ragioni e gli ideali che stavano alla base della sua nascita. Per cui negli ultimi anni abbiamo visto organismi sempre più schiacciati sulle posizioni e le esigenze delle gerarchie.
Fino al paradosso di oggi, dove il presidente della rappresentanza dell’Esercito è il generale di divisione Paolo Gerometta e quello della Marina è l’ammiraglio di divisione Pietro Ricca. Ora, già è discutibile che due ufficiali generali siano a capo degli organismi che dovrebbero tutelare alcune decine di migliaia di soldati, sergenti e marescialli. Ma questi due ufficiali sono anche rispettivamente capo della Direzione generale del personale militare e capo del Reparto personale dello Stato maggiore della Marina.
Qualcuno è davvero convinto, come auspicava Bertoldo nel suo testamento rivolgendosi al Re, che questi sappiano di tenere la bilancia giusta, tanto per il povero, quanto pel ricco? A naso lo vedo difficile considerando anche l’ostinazione con cui questi signori tengono tutte le poltrone possibili, difesi e giustificati dai ministri che si succedono indifferenti. Prendete Gerometta. Ci saranno una decina di interrogazioni che chiedono spiegazioni su come uno stesso ufficiale possa ricoprire due incarichi così confliggenti.
Le risposte, quando ci sono, sembrano scritte con il ciclostile (ops, la fotocopiatrice il ciclostile lo usavano quelli di Lotta continua). Dice la Pinotti: “L’incarico di Direttore generale per il personale militare, al pari di altri fra cui quello di Capo di un Reparto di uno Stato maggiore di Forza armata, comporta compiti istituzionali che non confliggono in alcun modo con quelli connessi al mandato della rappresentanza militare”. Non confliggono in alcun modo? Va bene che siamo il Paese di Berlusconi e di Renzi, ma un po’ di decenza ogni tanto non guasterebbe.
Tanto per restare in tema Pinotti, uno dei miei preferiti della serie “mi piace vincere facile”, sentite cosa diceva l’attuale ministra della Difesa, assieme a tutti senatori Pd, quand’era in commissione Difesa del Senato (siamo nel 2012): “La tutela della funzione democratica degli organi della rappresentanza militare si basa in gran parte anche sul rispetto della durata del mandato degli eletti e sulla possibilità per il personale militare di esprimere democraticamente e nei tempi previsti le proprie scelte; non è più dunque rinviabile che gli organi di rappresentanza all’interno delle forze armate siano soggetti a infinite proroghe per quanto riguarda la loro durata, snaturando così ragione e natura delle rappresentanze stesse” (dall’Ansa del 9 febbraio 2012). Chissà cosa ne dicono i sette-deputati-Pd-sette, che adesso la proroga la vogliono con tanto entusiasmo?
Per Salvatore Rullo, vicepresidente dell’associazione Assodipro che si batte per il riconoscimento dei diritti sindacali dei militari, “si continua con il sistema delle mance: è oltremodo imbarazzante  sapere che l’onorevole Rosa Villecco Calipari ha proposto l’ennesima proroga di un anno, alla rappresentanza militare, che potrebbe apparire come una mancia ad alcuni Coocer – sindacato giallo pagato dallo Stato. No alle proroghe e sì ai diritti ratificati da sentenze della Corte  di Strasburgo”.
D’altronde che ci si può aspettare ai tempi del renzismo trionfante? In un momento in cui in Italia si decide di passare il Corpo forestale dello Stato, un corpo di polizia civile, ai Carabinieri, una forza armata. Neppure il fascismo aveva osato tanto. Di che ci potremmo stupire in un Paese che sembra tollerare che un Carrai qualsiasi possa diventare capo di una struttura per la sicurezza informatica dello Stato. Al confronto, appallottolare i diritti e buttarli nel cestino sembra tutto sommato uno scherzo. D’altronde Renzi e i suoi nominandi deputati sembrano avere una smisurata ammirazione per un altro supremo campione della cancellazione dei diritti: Marchionne, un maestro perfetto. Che sarà mai un Cocer? Dopotutto sono solo militari.

venerdì 22 gennaio 2016

Si naviga a vista e l’ottimismo non basta

intervento-baranes-borsa«L’Italia sta veramente ripartendo»; «questa è davvero la volta buona»; con Juncker nessun problema, solo un suo «infortunio verbale»; sulla bad bank Padoan sta «facendo miracoli». Sono alcuni passaggi della lunga intervista rilasciata ieri dal presidente del consiglio Matteo Renzi al Sole24Ore. Se possibile ancora più ottimismo del solito.
Lo stesso che sembra trapelare da Davos, malgrado l’annuale Forum dell’Economia mondiale si sia aperto su una situazione a dire poco intricata. Il nostro Paese in particolare sembra trovarsi in una vera e propria tempesta perfetta, alla quale contribuiscono una serie di fattori.
Si tratta di sette principali punti di crisi.
1) Il crollo delle borse, partito dalla Cina, ha poi contagiato l’Asia e via via le altre piazze finanziarie. Un crollo iniziato alcuni mesi fa, dopo tre anni consecutivi di crescita vertiginosa, con aumenti ben superiori al 100% in un anno e decine di milioni di nuove posizioni aperte nella sola primavera 2015. Non era così difficile immaginare che si trattava di una bolla, e che, come tutte le bolle, prima o poi sarebbe scoppiata.
2) Lo scoppio e il contagio alle altre piazze finanziarie sono però rapidissimi per una finanza che ragiona in millesimi di secondo, nell’esasperato tentativo di anticipare gli andamenti dell’economia. Somme gigantesche si spostano sulla base di voci e di supposizioni amplificando, sia in positivo sia in negativo, i cicli e gli andamenti economici. Cresce l’instabilità nelle Borse mondiali, dove una buona notizia diventa un’irrefrenabile euforia, ma una cattiva si trasforma in un inarrestabile crollo. Meccanismi cavalcati da una speculazione che guadagna sulle oscillazioni dei prezzi e si nutre ed esaspera l’ instabilità dei mercati.
3) Il rallentamento dell’economia cinese e una crescita del Pil inferiore alle aspettative è un problema anche, se non soprattutto, per l’Europa, dove la ripresa stenta e dove la politica economica ha puntato tutto sull’export. Austerità e crescenti diseguaglianze deprimono la domanda interna, mentre la competitività diventa fine a se stessa nella gara globale per chi produce al prezzo più basso. Con il Quantitative Easing inondiamo il mondo di euro, svalutando la nostra moneta per rendere più convenienti le esportazioni. Il problema è che se l’Europa, che nel suo insieme già oggi ha il maggior surplus commerciale del pianeta, punta tutto su esportare sempre di più, un rallentamento del principale mercato di sbocco, i paesi asiatici e le economie emergenti, rischia di bloccare l’intera economia mondiale.
4) Su questo si innesta il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime. Un segnale doppiamente preoccupante. Da un lato è un sintomo del rallentamento della produzione industriale e della crescita economica, il che innesca ulteriore sfiducia. Dall’altro, si ripete il discorso fatto al punto precedente. Se il greggio continua a scendere, sono problemi per i paesi produttori, ma anche per quelli che basavano la loro economia sulle esportazioni, quindi per l’Europa. L’Italia importa petrolio, ma deve sperare che il prezzo non scenda troppo. Logico, no?
5) Problemi internazionali e decisioni economiche europee a cui si sommano questioni interne al nostro paese. Una disoccupazione che rimane intollerabile, diseguaglianze crescenti, l’inflazione più bassa da mezzo secolo a questa parte, una fiducia non esattamente ai massimi malgrado i continui proclami. Vari fattori che contribuiscono a deprimere domanda e consumi. Se però l’economia interna non riparte, le esportazioni si fermano, parlare di investimenti pubblici è un affronto al dio dell’austerità, chi dovrebbe trainare la famigerata ripresa?
6) Secondo il dogma neoliberista per cui la finanza pubblica è un problema e quella privata la soluzione, a trainarla dovrebbero essere mercati finanziari e banche. Di mercati finanziari in questi giorni è meglio non parlare, ma non è che le banche se la passino tanto meglio, anzi. Le sofferenze – i crediti che non vengono restituiti – superano il 10%. Per liberare le nostre banche da questa zavorra e rilanciare il credito e quindi l’economia servirebbe la bad bank. L’Ue non vuole però sentire parlare di aiuti di stato, e i piccoli «infortuni verbali» tra Juncker e Renzi rischiano di non semplificare le cose. Così come non le semplificano le lettere indirizzate dalla Bce alle nostre banche per informazioni su queste stesse sofferenze.
7) Se per le nostre banche questi problemi non fossero sufficienti, di nuovo l’Europa ci mette un carico non da poco, con l’entrata in vigore del bail-in, in assenza però di un meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie su scala continentale. Per l’ennesima volta una Ue in mezzo al guado, che impone regole uniche ma lascia poi i paesi più deboli a sbrigarsela da soli. Con l’attuale sfiducia è facile presumere il rischio di un bank run, ovvero che alla prima difficoltà i piccoli risparmiatori scappino a gambe levate dagli investimenti in azioni e obbligazioni bancarie.
Riassumendo. Le Borse calano; la finanza è rimasta il gigantesco casinò dell’epoca dei subprime; l’economia internazionale va male; quella italiana peggio; le diseguaglianze crescono; le politiche economiche sono pessime; l’Europa è un disastro; la sfiducia nelle banche ai massimi. Per fortuna che, alla faccia dei gufi, «l’Italia sta veramente ripartendo». L’unico problema è capire in quale direzione.
Andrea Baranes - Il Manifesto