sabato 12 marzo 2016

Quello che gli economisti non dicono F. di Lenola e A. Scorrano intervistano Daniele Tori

[La prima versione di questa intervista, curata da Fabio di Lenola e Aldo Scorrano, è uscita sul sito del Csepi]
Andrea Mantegna getsemaniDaniele Tori si è laureato all’Università di Pavia in Scienze politiche e in Economia. È membro del Greenwich Political Economy Research Centre e membro del Post Keynesian Economics Study Group. Dal prossimo settembre assumerà la posizione di Lecturer in Finance alla Open University (UK). Attualmente si occupa di investimenti da un punto di vista microeconomico, le evoluzioni del sistema finanziario, e i processi di finanziarizzazione in generale.
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Sono ormai trascorsi quasi dieci anni dallo scoppio della crisi che ha investito il mondo occidentale. In questo periodo l’Italia ha visto l’alternarsi dei vari governi Monti, Letta e Renzi che si sono mossi, sostanzialmente, in continuità con una linea o agenda europea di politica economica che potremmo definire conservatrice. Alla luce di quanto è emerso dall’operato di questi governi, possiamo dire che tale “linea”, sia stata e continui ad essere fallimentare?
Questi governi hanno essenzialmente provveduto, con modalità simili, a meri aggiustamenti in senso restrittivo delle politiche di bilancio in accordo con i dettami europei. Era già evidente in partenza che queste politiche, frutto di una comprensione meramente tecnica della crisi (regolamentazione del sistema bancario-finanziario, contenimento di deficit e debito), sarebbero state fallimentari. Le vere cause, anche per quanto riguarda la crisi statunitense dei sub-prime, sono sicuramente da ricercare nei meccanismi fondamentali di funzionamento delle economie capitalistiche avanzate, e non semplicemente in un problema di “regolamentazione dei mercati”. Si tratta di analizzare una complessa interazione tra fattori sociali e finanziari. Il deterioramento nella distribuzione funzionale del reddito (tra percettori di salari e di profitti) e nella distribuzione della ricchezza si è tradotto, da un lato, in una domanda aggregata asfittica e, dall’altro, ha incoraggiato comportamenti speculativi. L’economia Italiana si trova oggi in una situazione molto seria e precaria, soprattutto per la presenza di problematiche strutturali, non necessariamente legati alla congiuntura recente. A mio avviso, i vari governi Monti, Letta e Renzi non hanno minimamente scalfito le ingessature di un sistema socio-economico che deve essere rimesso in discussione ponendo al centro dell’azione politica, sociale ed economica, le questioni principali: lavoro, distribuzione del reddito e della ricchezza, investimenti. Focalizzarsi su questi punti significa interrogarsi criticamente su passato, presente e futuro della struttura socio-economica del sistema Paese, senza dimenticare la dimensione internazionale (non limitata al contesto europeo) all’interno della quale quest’ultimo è inevitabilmente inserito. Ripercorrendo con la memoria gli ultimi dieci anni non riesco a trovare nemmeno timidi cenni alle questioni sopra elencate nel dibattito politico.
Questo ossimoro denominato “austerità-espansiva” ha delle basi scientifiche o è il frutto di ideologia, intesa nella sua accezione negativa?
L’idea della austerità fiscale espansiva emerge attorno agli anni Novanta quando, economisti quali Francesco Giavazzi, Alberto Alesina, e Roberto Perotti sviluppano una critica secondo la quale, date certe condizioni, le politiche fiscali espansive di tradizione keynesiana possono avere effetti ‘non-keynesiani’, ovvero non stimolerebbero la domanda e, inoltre, causerebbero un deterioramento delle finanze pubbliche e quindi del sistema finanziario in generale. Sempre secondo questi autori, al contrario, politiche fiscali restrittive “ben strutturate” possono avere effetti positivi su investimenti, consumi ed esportazioni. Ormai famoso è poi il caso della pubblicazione di Reinhart e Rogoff (2010) nel quale i due autori affermano, sulla base dell’evidenza empirica, che un alto rapporto debito/PIL sia negativamente correlato al tasso di crescita di un’economia. Si è poi scoperto che l’esclusione selettiva di alcune nazioni e periodi nelle serie storiche -alla quale si aggiunge un errore grossolano di una formula del foglio Excel utilizzato dai due autori – sarebbe alla base di questi risultati ottenuti pertanto con scelte ad hoc. Tuttavia, al di là degli errori tecnici, quello che vorrei sottolineare è la scarsa importanza data al concetto di causalità. Infatti, se da un lato abbiamo gli strumenti per la costruzione di una relazione statistica tra due o più variabili macroeconomiche, abbiamo bisogno di una costruzione teorica che ne giustifichi i nessi causali. Se può essere vero che un elevato livello del debito pubblico può opprimere la crescita è altrettanto vero che un basso tasso di crescita può causare un aumento del debito (ovvero il rapporto debito/PIL può aumentare anche perché diminuisce il denominatore).
Sempre riguardo alle basi scientifiche della cosiddetta austerità espansiva, in un recente lavoro Botta (2015) rileva come a) la condizione teorica necessaria affinché una riduzione della spesa pubblica abbia un effetto positivo sui consumi sia potenzialmente possibile ma sostanzialmente irrealistica; b) l’effetto sugli investimenti di una contrazione della spesa è dubbio e dipende dagli effetti del consolidamento fiscale sul rapporto deficit/PIL e di conseguenza sulla percezione degli operatori finanziari circa la solidità delle finanze pubbliche e del sistema finanziario nel suo insieme. Inoltre, misure di austerità volte a ridurre i salari reali per aumentare la competitività internazionale poggiano sul “pericoloso mito” degli effetti benefici dell’abbassamento del costo unitario del lavoro (Storm, 2015).
In sostanza, le basi scientifiche ed empiriche sono molto deboli. Tuttavia, le istituzioni nazionali e internazionali hanno preso per vera e solida questa visione. Condita con l’equazione Stato=famiglia, ovvero che il settore pubblico debba ridurre la spesa in caso di cicli economici negativi proprio come si comporterebbe un “buon padre di famiglia”, essa va a formare la base delle politiche di austerità le quali, in ultima analisi, sono servite a giustificare interessi particolari mascherati da interesse economico generale.
I punti cardine dell’economia-mainstream sono rintracciabili, in sostanza, nei seguenti postulati: un individuo razionale che massimizza la propria utilità e nel principio della concorrenza. Cosa c’è di vero in questi due dogmi?
I principi di massimizzazione e massimizzazione vincolata dell’utilità sono categorie eleganti ed affascinanti dal punto di vista modellistico. Tuttavia, ci possono dire poco rispetto alla descrizione dei comportamenti degli agenti economici e presuppongono una visione dell’economia essenzialmente basata sul consumo. Qualsiasi tipo di massimizzazione presuppone una conoscenza perfetta dell’insieme delle probabilità riguardo a passato presente e futuro. Trovo in questo caso più appropriata l’idea di Keynes secondo cui gli individui si muovono in un mondo caratterizzato da incertezza fondamentale. Nella realtà, infatti, i comportamenti dei soggetti economici prendono forma secondo una “razionalità limitata”, ovvero sono in grado di valutare un set limitato delle informazioni a loro disposizione.
In aggiunta, il modello di concorrenza perfetta, prima che di poca aderenza con la realtà, soffre di inconsistenze logiche interne. Ad esempio, F.A. Hayek rileva che, se si accetta la definizione secondo la quale l’economia è la scienza della scarsità, questo significa appunto che tutte le risorse sul quale il sistema economico si basa, sono scarse. L’informazione è una risorsa produttiva ed è essenziale per il funzionamento del modello di domanda e offerta. Il modello presuppone inoltre la perfetta conoscenza e informazione da parte di tutti gli attori. Quindi, si ha che la conoscenza è una risorsa illimitata per chiunque. Quest’ultima non è quindi trattata come una risorsa scarsa, ovvero come dovrebbe essere secondo tale impostazione.
Questo modello presuppone perfetta competizione. Ma se questa non si realizza, possiamo tracciare le canoniche curve della domanda e dell’offerta? La risposta è chiaramente negativa. Le curve di domanda e offerta possono essere tracciata solo assumendo che tutti i consumatori e le imprese sono “price-taker”, ovvero assumono il prezzo di un bene o servizio come dato, e non hanno quindi potere di “controllo sul mercato”. La cosiddetta “welfare economics” ha come postulato principale quello secondo il quale il surplus dei consumatori è massimizzato quando il prezzo di un dato bene eguaglia il costo marginale di produzione del bene stesso (o costo unitario di ri-produzione). Da questo abbiamo che i consumatori stanno meglio se la struttura di mercato è il più prossima possibile alla concorrenza perfetta, nella quale la eguaglianza di cui sopra è garantita. Al contrario, i consumatori sono negativamente influenzati da condizioni di oligopolio/monopolio poiché vedono ridursi il loro surplus. Ma come si creano i monopoli? Un economista mainstream potrebbe optare per la risposta più’ ovvia e superficiale: i monopoli sono il risultato di una decisione governativa. Un’analisi più’ approfondita può rivelare un aspetto interessante: in un mercato competitivo caratterizzato da rendimenti di scala crescenti (costi in diminuzione all’aumentare della scala di produzione) vi è appunto un incentivo per le imprese a crescere in dimensione. Essere in competizione significa che le imprese meno efficienti falliscono, oppure vengono acquisite da quelle più efficienti. Quindi, è la competizione in sé che riduce il numero di concorrenti e aumenta il potere di mercato delle imprese sopravvissute e quindi vincitrici! Ci sono molti casi reali dove è possibile rintracciare questo meccanismo, soprattutto guardando agli Stati Uniti, considerata la patria del libero mercato. Basti infatti guardare alle evoluzioni negli ultimi trent’anni di mercati quali quello dell’aviazione, dell’intrattenimento, l’alimentare e, in parte, anche del settore bancario.
In più, credo che le unità di analisi più feconde siano, ancora, le classi sociali. Tuttavia, credo che una nuova via di ricerca sia quello di tradurre queste categorie tenendo conto delle trasformazioni che stanno interessando la produzione capitalistica, il lavoro e i mercati finanziari.
Da un altro punto di vista, io credo che, se accettiamo il cosiddetto mercato come una categoria la cui analisi non può prescindere da considerazioni riguardo a strutture dinamiche di potere (e di sfruttamento), la concorrenza causa inevitabilmente situazioni di oligopolio, duopolio o monopolio.
A mio avviso, utilizzare modelli di concorrenza per analisi economiche è molto rischioso e può portare a conclusioni errate.
Alcuni sostenitori dell’uscita dell’Italia dall’euro (noi lo siamo ma con delle prospettive differenti) raccontano che nell’ipotesi del ritorno ad una valuta nazionale “il mercato” prezzerà correttamente il valore della nuova valuta mediante il meccanismo della domanda e dell’offerta e questo movimento permetterà all’economia italiana di recuperare competitività sui mercati internazionali. In un mondo in cui i mercati monetari sono dominati dai movimenti di capitale, nella maggior parte per scopi speculativi, cosa resta nel meccanismo della domanda e dell’offerta?
Come ho cercato di spiegare prima, i meccanismi del modello di domanda e offerta soffrono di numerose inconsistenze logico-applicative. In più, applicare questa struttura per un’analisi dei mercati finanziari può portare a conclusioni errate o parziali. Aspettarsi una prezzatura corretta della nuova Lira è un ragionamento che pecca di ingenuità.
In aggiunta, non guarderei al recupero della competitività internazionale come a una variabile a cui tendere per sé. Credo che l’Italia abbia un’economia di dimensioni adeguate per puntare primariamente lo sguardo a un rilancio della domanda interna, in particolare gli investimenti, intesi soprattutto come rilancio delle infrastrutture economiche e sociali. Una convinzione ben radicata è che problemi relativi al costo unitario del lavoro siano le principali determinanti della competitività internazionale e della bilancia commerciale. In più, la riduzione dei salari in un Paese produrrà riduzioni simili in altri Paesi che vogliano seguire lo stesso sentiero di competitività. Questa politica paradossale ha prodotto, e continuerà a sostenere, una corsa al ribasso sui salari che pone vincoli seri alle esportazioni nel lungo termine (i salari del Paese A sono fonte di domanda di importazioni per il Paese B, e viceversa), ovvero la variabile che si voleva migliorare proprio attraverso alla compressione dei salari e dunque dei costi di produzione.
Infine, vorrei fare riferimento al lavoro di Nadia Garbellini ed Emiliano Brancaccio riguardo alle esperienze passate di abbandono di aree valutarie (Brancaccio e Garbellini, 2015). Questi autori rilevano come, se dal punto di vista empirico lo spauracchio della crisi inflattiva non trovi sostegni concreti, gli effetti sui salari reali e la distribuzione del reddito devono essere valutati con cautela, soprattutto poiché dipendono dalle specifiche configurazioni socio-politiche della nazione/area in analisi. In aggiunta, per comprendere le potenziali conseguenze sul sistema economico bisogna anche tener conto della struttura produttiva e in particolare della sua dipendenza da importazioni di beni intermedi e di consumo.
La nostra idea è che l’uscita dall’euro sia un fattore necessario ma non sufficiente. Inoltre l’uscita sarebbe necessaria per riacquisire libertà di manovra a livello di bilancio pubblico. Si può concordare sul fatto che la nuova valuta consentirebbe maggiore discrezionalità di spesa rispetto all’attuale assetto dell’euro, con conseguenti effetti benefici sull’occupazione?
Esattamente. Credo che una nuova valuta sia una condizione necessaria ma non sufficiente per avere maggiore discrezionalità per quanto riguarda la politica economica. A mio avviso, vi sono alcuni elementi importanti da considerare. Tra questi, il fatto che l’uscita dall’Euro non assicurerebbe automaticamente l’elezione di un governo lungimirante. Inoltre, pur assumendo un governo seriamente orientato alla piena occupazione, due problemi resterebbero:
1) Come sappiamo l’articolo 81 della Costituzione Italiana è stato modificato introducendo un sostanziale pareggio di bilancio, limitando la flessibilità del decisore pubblico nella determinazione dei volumi di spesa pubblica. Oltre alle difficoltà provenienti dall’esterno, ci si dovrebbe confrontare con un percorso legislativo abbastanza lungo.
2) Ammesso di poter superare il precedente problema abbastanza in fretta, non si dovrebbe sottovalutare il ruolo della struttura di potere in cui si sviluppano gli eventi economici. Non mi sento di condividere il mero idealismo che porta ad una visione strumentale dell’apparato Statale. Questo aspetto è ben analizzato da Kalecki (1943), il quale si focalizza sull’effetto del potere capitalistico sia nella società che nello Stato. Politiche volte all’ottenimento del pieno impiego metterebbero a rischio i “privilegi” (reddito, status sociale, influenza politica, etc.) della classe capitalistica e imprenditoriale. A mio avviso, pensare che questi ultimi possano passivamente assistere al loro declino senza reagire è, ancora una volta, una visione piuttosto ingenua.
Da un punto di vista strettamente economico, inoltre, l’uscita dall’Euro implicherebbe il confrontarsi con una gestione molto complessa di numerosi aspetti (gestione del debito estero, salvaguardia e ripensamento del sistema bancario, etc.). A mio avviso, l’uscita dal sistema Europeo dovrebbe essere inserita in un ripensamento generale del sistema-Paese, il quale richiede condizioni politiche di partenza al momento difficili da rintracciare.
Spesso, se non sempre, i canali d’informazione nazionale, a mezzo stampa o tv, ci propinano concetti che, dal nostro punto di vista critico, rappresentano dei veri e proprio luoghi comuni che inevitabilmente influenzano l’opinione pubblica, tipo: il debito pubblico è un onere per le generazioni future; la moneta è un semplice mezzo di scambio; un mercato del lavoro più concorrenziale aumenta l’occupazione; un bilancio pubblico in pareggio favorisce gli investimenti privati; le banche fungono da intermediari tra risparmiatori e investitori. Condivide la nostra critica? Se si, ce li può sfatare?
Condivido in pieno l’idea che l’informazione economica soffra di un deficit di approfondimento. Concetti complessi vengono presentati con argomentazioni che fanno leva su intuizioni spicciole, cui fa da specchio un’analisi economica superficiale e interessata. Tuttavia, anche nel mondo accademico si assiste allo stesso tipo di perseveranza nel non mettere in discussione concetti e metodi di analisi consolidati. I luoghi comuni sono una delle conseguenze della monoliticità teorica che caratterizza gli ambienti accademici. Qualcosa sta cambiando (si vedano tra le altre le esperienze delle Università di Leeds, Greenwich e Kingston) ma l’informazione sembra stentare a recepire un pluralismo che sta rinascendo. Sfatare questi “miti” richiede un’analisi approfondita, a rimarcare la complessità delle categorie socio-economiche. Un dato interessante è quello riguardo alla crescente consapevolezza da parte degli studenti di economia, specialmente nel Regno Unito, del bisogno di un cambiamento nell’educazione universitaria.
Il debito non è un onere per le generazioni future. Abbiamo già visto che non esiste una base empirica per sostenere la negatività di un certo livello di debito. E’ bene sottolineare come la preoccupazione per un onere futuro poggia sull’assunzione che, in un dato momento, il debito debba essere necessariamente ridotto o addirittura estinto. Le future generazioni vedranno ridursi i servizi pubblici o, allo stesso modo, dovranno versare maggiori imposte. Questo, si pensa, al fine di permettere allo Stato di poter rimborsare il debito grazie agli avanzi di bilancio. Poniamoci una semplice domanda: chi detiene il debito pubblico? Ovviamente il debito pubblico è una componente della ricchezza di privati cittadini. Significa, sostanzialmente, che ci indebitiamo con noi stessi! Un punto sviluppato dal professor Roberto Ciccone (2012) con cui mi trovo d’accordo sostiene che, se le generazioni future decideranno che il debito pubblico dovrà essere ridotto e dovranno sorbirsi un maggior carico fiscale (o riduzione dei servizi), questo sarà comunque compensato dallo stock di debito (ricchezza privata) che essi erediteranno dai precedenti detentori dei titoli. In più, la larga parte del debito italiano è detenuta da banche e istituzioni finanziarie italiane, credo poco preoccupate delle loro relazioni intergenerazionali. In aggiunta, credo sia importante distinguere tra la spesa corrente e la spesa per investimenti come componenti del debito pubblico. Se è vero che la prima possa essere razionalizzata (sempre comunque garantendo un livello di welfare appropriato), la seconda è una variabile che crea ricchezza nel lungo periodo. Se anche dovessimo pensare che il debito presente crei maggiori costi in futuro, è anche vero che i maggiori beneficiari delle infrastrutture finanziate dal debito saranno appunto le generazioni future, per le quali sarà quindi logico prendersi carico della spesa necessaria.
Un discorso più complesso riguarda gli effetti futuri della porzione di debito detenuta da operatori esteri, ma questo per il momento non sembra essere un problema per l’Italia in quanto assistiamo, almeno dal 2007-2008 ad un processo di sostanziale “ri-nazionalizzazione” del debito.
La moneta non è un semplice mezzo di scambio. A questo punto vorrei rispondere a mia volta con una domanda che lo stesso J.M. Keynes pone ai suoi lettori nella Teoria Generale dell’occupazione, dell’Interesse e della Moneta: se la moneta è un semplice velo che agisce da lubrificante per lo scambio di beni, perché assistiamo continuamente a meccanismi di accumulazione di moneta da parte degli agenti economici? Se accettiamo il fatto di vivere in un mondo caratterizzato da incertezza fondamentale, e che quindi non si possa predire il futuro, la moneta diviene un mezzo a disposizione degli agenti economici per affrontare questa incertezza con maggiore flessibilità. Inoltre, la moneta può essere accumulata come riserva di ricchezza, e quindi per fini speculativi.
Un mercato del lavoro più concorrenziale non aumenta l’occupazione. Si scrive concorrenza nel mercato del lavoro si legge riduzione del potere contrattuale della forza lavoro. Infatti, dal mio punto di vista i datori di lavoro, essendo coloro che decidono il volume degli investimenti e quindi dell’occupazione, sono in una posizione contrattuale privilegiata nel cosiddetto “mercato del lavoro”.
Le evidenze empiriche, a partire dal lavoro di Arthur Okun, Nicolas Kaldor e Petrus Verdoorn mostrano una robusta relazione positiva tra prodotto, produttività e occupazione. Secondo la “quasi dimenticata” legge di Kaldor-Verdoorn, nel sistema economico la variabile indipendente è il prodotto (output), mentre la variabile dipendente risulta essere la produttività del lavoro. Questo significa che il tasso di crescita della produttività è una conseguenza, e non la causa, del tasso di crescita della domanda aggregata.
Detto questo, possiamo vedere come il continuo richiamo al problema della bassa produttività del lavoro in Italia focalizzi l’attenzione sulla variabile sbagliata: con avanzi primari di bilancio pubblico (entrate mano spese al netto degli interessi sul debito), uniti ad una dinamica della distribuzione del reddito a sfavore dei percettori di salario (lavoratori dipendenti) abbiamo una riduzione della domanda aggregata (e quindi degli investimenti), la quale è la causa fondamentale della caduta della produttività del lavoro. Sul lato dei consumi, un mercato del lavoro concorrenziale significa un salario più basso. Questo è visto con favore dal singolo imprenditore siccome si tratta di una riduzione di costo produttivo. Tuttavia, per l’economia aggregata il salario è fonte di domanda. Salario più basso (e magari più incerto) significa domanda più bassa. Riguardo agli investimenti, se accettiamo che essi dipendano dalla domanda aggregata attesa di beni e servizi, un minor consumo ridurrà gli investimenti e quindi la domanda di nuovi occupati da parte delle imprese. Secondo questi meccanismi, il livello di occupazione diventa quindi la variabile residuale che dipende, in ultima analisi, dalla crescita della domanda aggregata.
In aggiunta, il lavoro è prima di tutto un rapporto sociale e non può quindi essere discusso, analizzato e compreso secondo meri meccanismi di mercato, o in termini di parametri tecnici. In un recente studio sul Regno Unito, viene analizzata la relazione tra la quota dei salari, la forza dei sindacati e la crescita economica (Onaran, Guschanski, Meadway, and Martin, 2015). Gli autori mostrano come nel Regno Unito la quota dei salari si sia ridotta notevolmente, seguendo una traiettoria comune alla maggior parte dei Paesi europei. Allo stesso tempo, la quota dei lavoratori iscritti al sindacato é scesa dal 50% al 25% in poco più di tre decadi. Queste due tendenze sono l’esito di, tra gli altri fattori, politiche governative volte a “riformare” il mercato in senso concorrenziale con un effetto negativo sui salari. Il reddito nazionale inglese, sostengono gli autori sulla base del loro studio, è trainato dalla domanda proveniente dai reddito da lavoro, piuttosto che dai profitti delle imprese. Gli autori concludono che la diminuzione della presenza sindacale ha avuto come risultato finale una minor crescita (stimata in una perdita pari a -1.6% per il periodo in analisi). Più che ad una maggiore flessibilità del mercato del lavoro si dovrebbe pensare ad una ri-regolamentazione di questo “non-mercato” verso una contrattazione collettiva caratterizzata da un ruolo attivo dello Stato nel provvedere alla definizione e controllo di strutture di contrattazione settoriali. In aggiunta, è necessario un orientamento delle politiche macroeconomiche volte al pieno impiego, al fine di (s)bilanciare le relazioni di potere e il sistema economico in generale.
Un bilancio pubblico in pareggio non favorisce gli investimenti privati. I sostenitori di un budget pubblico perfettamente bilanciato (Spesa governativa = Tasse + imposte) credono che, in caso di deficit (Spesa > Tasse + Imposte), il governo sarà costretto a prendere a prestito moneta e quindi, date le dimensioni del settore pubblico e quindi delle somme che può richiedere, questo produca una pressione al rialzo sul tasso di interesse reale (il prezzo del denaro al netto dell’inflazione). Il risultato sarà quello di un tasso ovviamente più alto di quello che si avrebbe se il settore pubblico non dovesse ricorrere al risparmio privato. Di conseguenza, dato l’alto costo del denaro gli imprenditori sarebbero scoraggiati ad accendere prestiti per i loro progetti di produzione. In altre parole, si dice che il “costo-opportunità” di prendere a prestito per i privati è aumentato, cosicché progetti di investimento che prima sembravano profittevoli vengono scartati sulla base del nuovo livello del tasso di interesse, appunto perché troppo “costosi”. Questo incide ancor più negativamente, alcuni sostengono, sulle imprese di piccole dimensioni che hanno più difficoltà a sopportare rialzi dei tassi, dato che si trovano in una posizione strutturale di “vincolo finanziario”. Secondo i sostenitori del balanced budget sostengono quindi che i deficit governativi “spiazzano” gli investimenti privati.
A mio avviso ci sono due critiche principali a questa visione.
In primo luogo, anche se lo spiazzamento è possibile in teoria, i deficit pubblici hanno anche un effetto opposto a quello descritto sopra. Infatti, una maggior spesa pubblica avrebbe come effetto primario un aumento della domanda aggregata totale (dato che, assumendo un’economia chiusa, il PIL è la somma di consumi ed investimenti privati più consumi ed investimenti pubblici), creando quindi nuove opportunità di vendita per il settore produttivo in generale (per la precisione, questo accade in una condizione di sotto-utilizzo della capacità produttiva, la quale sostanzialmente caratterizza i sistemi economici negli ultimi decenni). Il settore privato, a sua volta, sarà spinto ad incrementare gli investimenti per soddisfare la domanda attesa. È facile intuire come questo effetto sia ancor più importante in situazioni di incertezza sulle condizioni economiche da parte degli imprenditori. Questo è quello che in gergo viene chiamato “effetto moltiplicatore fiscale” della spesa pubblica.
In secondo luogo, come ho cercato di spiegare in risposta ad una precedente domanda, le evidenze empiriche supportano la visione per la quale il tasso di investimento dipende maggiormente dalla domanda effettiva attesa, piuttosto che dal livello del tasso di interesse. Facendo riferimento al periodo che stiamo vivendo ora in Europa, abbiamo che, seppur in presenza di tassi di interesse reali pari a zero (o addirittura negativi) il tasso di accumulazione nella maggior parte dei Paesi europei rimane sostanzialmente stagnante.
Le banche, e il sistema finanziario in generale, non fungono da intermediari tra risparmiatori e investitori. Le banche sono le istituzioni che creano la moneta-credito concedendo prestiti per la produzione, facendo sì che i crediti creino i depositi, e non viceversa. Questo è un fatto ormai accettato anche da istituzioni sostanzialmente “ortodosse” quali la Bank of England, la quale ha recentemente ha pubblicato un report divulgativo sull’argomento (Bank of England, 2014).
In aggiunta, la crescita del valore aggiunto riconducibile al settore finanziario evidenzia una disconnessione sistemica tra le dimensioni di quest’ultimo e le esigenze di finanziamento per la produzione del settore “reale”. Analizzando dati dell’OECD è possibile osservare che, negli anni Settanta il valore aggiunto del settore finanziario (Financial Insurance and Real Estate) in rapporto al PIL si aggirava attorno al 15-20% nelle principali economie avanzate. Nel 2008, questo rapporto si aggira attorno al 30-35%. A questo aumento non si è associata una equivalente crescita del valore aggiunto creato dal settore manifatturiero. In un recente studio da me co-autorato (Tori e Onaran, 2015), ci concentriamo sulla relazione tra il sistema finanziario e quello produttivo nel caso del Regno Unito. L’evidenza è di un effetto negativo sia dei pagamenti che degli introiti che le imprese produttive manifatturiere consegnano e ricevono dal sistema finanziario. Il crescente orientamento del settore non-finanziario verso attività finanziarie non-operative porta a minori investimenti in capitale fisso, e quindi ad una crescita stagnante e/o precaria. Questo meccanismo, associato ad una riduzione del reddito da lavoro, produce effetti negativi anche sulla produttività di lungo termine.
I moderni mercati finanziari non svolgono esclusivamente un ruolo di semplice intermediazione. In un recente lavoro con alcuni colleghi (Botta, Caverzasi, Tori, 2015) analizziamo ciò che viene chiamato “shadow-banking system”, evidenziando le relazioni tra quella che è la versione più evoluta di mercati e istituzioni finanziarie e l’economia reale. La nostra analisi cerca di chiarire che il sistema finanziario consente sì il funzionamento delle economie capitalistiche ma, allo stesso tempo, nuove interazioni all’interno del sistema finanziario possono influenzare indirettamente le dinamiche reali attraverso una variazione nel meccanismo di concessione del credito, dando così vita a turbolenti cicli espansione-crisi.
E’ infine interessante rilevare come centri di ricerca di istituzioni quali l’OECD e IMF mettano in dubbio la relazione aurea tra sviluppo dei mercati finanziari e crescita (OECD, 2015; Sahay et. al., 2015). Il sistema finanziario sostiene l’economia reale ma, quando la sua dimensione non giustifica i bisogni dell’economia reale, questo riduce la crescita di lungo termine.

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