lunedì 30 maggio 2016

La degradazione della cultura - di Robert Kurz -

cultura

Oggi, per la maggior parte delle persone, una critica fondamentale dell'economia moderna appare altrettanto insensata del tentativo di passare attraverso la parete anziché dalla porta. Quella stessa economia che, se osservata, rivela tutte le sue tracce di follia, considerate però come normali, dal momento che i criteri della macchina capitalista sono stati interiorizzati universalmente. Quando i pazzi sono la maggioranza, la follia è un dovere del cittadino. Sottoposta ad una simile pressione, la critica sociale si ritrae dal campo dell'economia e va in cerca di evasioni. La sinistra, specialmente, non vede di buon occhio il fatto che si metta il dito nella piaga delle relazioni economiche predominanti: è penoso ricordare la propria capitolazione incondizionata. Teoricamente disarmata, la sinistra preferisce denunciare qualsiasi seria critica del mercato, del denato e del feticismo della merce, come "economicismo" antiquato e inutile, superato da tempo.
E allora di che cosa si occupa una critica sociale ormai indegna di tale nome? Prima, il grande rifugio era la politica. Si pretendeva che tutte le questioni del sistema produttore di merci ( e pertanto anche l'economia) fossero regolate per mezzo del "discorso razionale" dei membri della società, all'interno delle istituzioni politiche. Di questa speranza è rimasto ben poco. Da tempo, la politica è stata degradata a sfera secondaria dell'economia totalitaria. Oggi, il fine in sé del capitalismo ha divorato la supposta "relativa autonomia" della politica. Per questo motivo, nella postmodernità la critica sociale si rifugia nella cultura, abbandonando la politica, allo stesso modo in cui prima aveva cercato rifugio nella politica, abbandonando l'economia. La sinistra postmoderna è diventata, sotto ogni aspetto, "culturalista" e ritiene di essere capace, con la massima serietà, di agire "sovversivamente" nell'ambito dell'arte, della cultura di massa, dei media e della teoria della comunicazione, mentre trascura praticamente del tutto l'economia capitalista e la menziona soltanto di passaggio, con evidente fastidio.
Ma a prescindere da quali siano i domini sociali in cui si rifugia una sinistra che ha calato il silenzio sulla critica dell'economia, l'economia capitalista continua ad essere sempre presente e le si rivolge con un sorriso ironico. È vero che questa "economia ha divorziato dalla società" - come scrive la critica sociale francese Viviane Forrester nel suo libro a proposito del "Terrore dell'economia" - ma il capitalismo si è dimenticato della società soltanto in senso sociale, senza però lasciarsela sfuggire dalla grinfie. Al contrario, l'economia totalitaria veglia attentamente affinché sotto il sole non avvenga mai niente che non serva direttamente al fine in sé della massimizzazione dei profittti. E oggi questo vale anche per la cultura.
L'economia moderna si è affermata man mano che la sfera capitalista di produzione industriale si è dissociata dagli altri ambiti della vita. La cultura, in senso ampio, sembrava essere un'attività "extra-economica", espulsa, come semplice sottoprodotto della vita, verso il cosiddetto "tempo libero". Questa è stata la prima degradazione della cultura nella modernità: si è trasformata in un argomento poco serio, in un semplice "momento di svago". Ma nel momento in cui il capitalismo ha dominato integralmente la riproduzione materiale, il suo appetito insaziabile si è esteso anche alle configurazioni immateriali della vita e, nei limiti del possibile, ha cominciato a rilevare pezzo dopo pezzo gli ambiti dissociati e a sottometterli alla sua peculiare razionalità imprenditoriale. Questa è stata la seconda degradazione della cultura: è stata essa stessa industrializzata.
In questo modo, si è ripetuto ciò che Marx aveva detto a proposito delle mutazioni della produzione materiale, in quanto anche la cultura è passata dalla fase "formale" alla fase "reale" della sussunzione al capitale: se, in un primo momento, i beni culturali venivano considerati solo esteriormente e, a posteriori, come oggetti di compravendita secondo la logica del denaro, nel corso del 20° secolo la loro produzione stessa è passata a dipendere sempre più, aprioristicamente, da criteri capitalisti. Il capitale non ha più voluto essere solo l'agente della circolazione dei beni culturali, ma è passato a dominare tutto il processo di riproduzione. Arte e cultura di massa, scienza e sport, religione ed erotismo sono diventati prodotti sempre più simili alle automobili, frigoriferi o detersivi. In questo modo, i produttori culturali hanno anche perso la loro "relativa autonomia". La produzione di canzoni e romanzi, di scoperte scientifiche e riflessioni teoriche, di film, quadri e sinfonie, di eventi sportivi e spirituali poteva avvenire soltanto come produzione di capitale (plusvalore). Questa è stata la terza degradazione della cultura.
Tuttavia, nell'epoca di prosperità successiva alla seconda guerra mondiale, in molti paesi si è formato un paraurti sociale che ha protetto parte della cultura dall'impatto devastante dell'economia. Parlo del meccanismo keynesiano di redistribuzione. Il deficit spending ha alimentato non solo la produzione di armamenti militari e lo stato sociale, ma anche alcuni ambiti culturali. Non c'è dubbio che la sovvenzione statale abbia imposto dei limiti rigorosi all'autonomia della cultura. Ma il controllo dello Stato era aperto alla discussione pubblica, e non era tirannico: in caso di conflitto, si può negoziare con funzionari e politici, ma non con le "leggi del mercato". Attraverso il "keynesismo culturale" una parte della produzione culturale dipendeva solo indirettamente dalla logica del denaro. Dal momento che le trasmissioni radio e televisive, le università e le gallerie, i progetti artistici e teorici venivano sovvenzionati o promossi dallo Stato, non bisognava sottomettersi direttamente ai criteri imprenditoriali; esisteva un certo campo di azione per la riflessione critica, per gli esperimenti e le "arti improduttive" minoritarie, senza che venissero minacciate sanzioni materiali.
Questa situazione si è modificata essenzialmente a partire dall'inizio della nuova crisi mondiale e con la conseguente campagna neoliberista. La fine del socialismo e del keynesismo ha scosso fortemente la cultura, dal momento che essa si è vista privata dei suoi mezzi. Gli Stati non si sono disarmati militarmente, ma si sono disarmati culturalmente. In una piccola porzione dello spettro culturale, la sponsorizzazione privata ha preso il posto degli incentivi statali. Non ci sono più diritti sociali e civili, ma solamente l'arbitrio caritatevole dei vincitori del mercato. I produttori culturali si trovano esposti agli umori personali dei magnati del capitale e dei mandarini dell'amministrazione, per le cui mogli devono servire da hobby e da passatempo. Come i giullari di corte e i servitori del Medioevo, sono costretti a indossare i loghi e gli emblemi dei loro signori, al fine di essere utili al marketing. Questa è la quarta degradazione della cultura.
Per la stragrande maggioranza delle arti, delle scienze e delle attività culturali di ogni tipo, però, la questione dell'umiliante ed arbitraria sponsorizzazione privata non viene nemmeno messa in discussione. Oggi, tutti queste attività si trovano direttamente esposte, in una proporzione inaudita e senza alcun filtro, ai meccanismi del mercato. Istituti scientifici ed associazioni sportive devono fare ricorso alla Borsa, università e teatri devono fare profitti, la letteratura e la filosofia devono battersi contro i criteri della produzione di massa. Nella grande distribuzione, ottiene successo soltanto quello che si presta a diventare un'offerta per lo svago degli schiavi del mercato. Da qui, le grottesche distorsioni nelle remunerazioni dei produttori culturali: nel calcio e nel tennis, i giocatori ricevono milioni, mentre i produttori di critica, di riflessione, di rappresentazione ed interpretazione del mondo sono messi allo stesso livello dei pulitori di cessi. Con la razionalizzazione capitalista dei media, vengono trasposti nella sfera culturale i salari di fame, l'esternalizzazione e la schiavitù imprenditoriale.
Il risultato può essere soltanto la distruzione del contenuto qualitativo della cultura. Pagati una miseria, socialmente degradati e ricattati, i lavoratori della cultura e dei media producono, com'è ovvio, beni ugualmente miserabili; ciò vale tanto per questo campo quanto per tutti gli altri. E la riduzione brutale ad un orizzonte di tempo abbreviato e la distribuzione di massa del mercato, eliminano tutto quello che pretende di essere qualcosa di più di un prodotto usa e getta. Ben presto nelle librerie troveremo soltanto libri pornografici, esoterici e di ricette, per la classe media depravata. Ma anche nelle scienze, la logica di mercato si lascia dietro una scia di distruzione. Dal momento che, per loro natura, non possono assumere forma mercantile, le scienze sociali e dello spirito vengono sradicate dall'impresa accademica come se fossero erbacce. Sono soprattutto gli istituti storici a soffrire dei tagli nelle loro dotazioni, poiché il mercato non ha alcun bisogno di passato; la scienza naturale si è definitivamente sostituita alla filosofia ed alla teoria sociale. Nella scienza naturale, tuttavia, la ricerca "senza obiettivo" viene svalutata e strangolata a favore della ricerca su commissione, più redditizia per il capitale.
Queste tendenze, così come avevano già degradato la soggettività religiosa o politica, portano necessariamente al collasso della soggettività culturale nella società borghese, senza sostituirla con qualcosa di nuovo. Oggi, neppure un conservatore "è" ancora conservatore, ma è solamente qualcuno che compra il conservatorismo come se fosse salsa di pomodoro o lacci per scarpe. Anche l'attuale papa, per quanto ortodosso sia, dimostra di essere uno specialista di marketing per eventi religiosi; ben presto, le religioni e le sette saranno quotate in Borsa e saranno guidate dai principi del valore azionario. Gli artisti e gli scienziati si sottomettono alla medesima degradazione della loro personalità. Quando pensano e producono, con premurosa obbedienza, secondo le categorie a priori della venalità, hanno già perso il loro tocco e possono ratificare soltanto il loro ruolo, come il celebre pittore Baselitz che in un lampo di lucidità gira i suoi quadri verso la parete.
"L'economicismo" non è un'idea sbagliata ed unilaterale di incorreggibili marxisti, ma è la tendenza reale al totalitarismo economico dell'ordine sociale predominante, che viene colta nella crisi attuale durante il suo più grande e forse ultimo scoppio. Ma il capitalismo non può stabilizzarsi sulle sue proprie basi. Allo stesso modo in cui l'industria farmaceutica perderà la sua grande fonte di conoscenza e di materie prime se le foreste tropicali vengono devastate, così anche l'industria della cultura si esaurirà quando non potrà più trarre sangue dalle sottoculture, una volta che l'attività non-commerciale delle masse sarà definitivamente morta. Una società composta solo di insistenti venditori che non comprano, e che è oramai incapace di riflettere su sé stessa, è diventata inostenibile anche in termini sociali ed economici.
- Robert Kurz - Pubblicato su Folha de São Paulo del 15.03.1998 -
Fonte: EXIT!

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