lunedì 22 agosto 2016

Robert Kurz: Non lo sanno ma lo fanno

Da "Lire Marx. Les textes les plus importants de Karl Marx pour le XXIe siècle. Choisis et commentés par Robert Kurz", La balustrade, 2002, (p.45-51). 
Questo estratto, che presenta soprattutto gli errori del "marxismo tradizionale" il quale ha sempre portato avanti la sua critica dal punto di vista di un'ontologia del lavoro, è l'introduzione fatta da Kurz ad un insieme di frammenti, scelti da diversi testi di Marx, cui rinvia. Nel testo che segue, con "Marx essoterico" e "Marx esoterico" (una sorta di Marx-Giano), Kurz intende distinguere due interpretazioni differenti dell'opera marxiana, di cui una è quella tradizionalmente ammessa (essoterica), che si basa principalmente su un punto di vista che si svolge a partire dal lavoro (che non viene assunto nella sua specificità e viene invece visto come naturale e sovra-storico) ed il cui oggetto di studio è soprattutto la lotta di classe. Quest'interpretazione tradizionale si focalizza sul modo di distribuzione. L'altra è assai meno conosciuta (esoterica), ma con questo non si vuol difendere l'idea per cui ci sarebbe stato un "vero Marx", il cui pensiero sarebbe stato tradito, e che deve quindi essere ripristinato. Si tratta piuttosto di affermare che in alcuni testi (soprattutto quelli che non erano destinati ad essere pubblicati - Grundrisse - o quelli lo sono stati molto più tardi, dopo la formazione dei marxismi), ci sono degli elementi che permettono di "andare con Marx oltre Marx" e quindi di liberare qualcosa di diverso dal Marx conosciuto: un "Marx esoterico".
Quest'interpretazione, stavolta non viene più attuata dal punto di vista del lavoro, ma piuttosto dal quello della possibilità della sua abolizione. Il Marx esoterico è quindi quello che critica sia il modo di distribuzione che il modo di produzione capitalista, e lo fa a partire dall'analisi da quelle categorie storicamente determinate che sono il valore, la merce, il denaro, il lavoro, il capitale. Quando alcune parole non sembravano chiare nel modo in cui sono state rese dalla traduzione, vengono proposte, fra parentesi, altri significati o delle precisazioni.
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Se si consulta la letteratura marxista ed antimarxista del 19° e del 20° secolo, si trova per tutto questo periodo, con fastidiosa regolarità, la stessa riduzione: in qualsiasi modo si affronti il capitalismo, in maniera positiva o negativa, lo si fa sempre quasi esclusivamente per mezzo delle categorie sociologiche di "classe" o "strato" sociale, mentre le forme sociali su cui esso è fondato rimangono in qualche modo neutre (per esempio nel rapporto fra mercato e Stato, si discute solo del loro raggrupparsi e della loro nuova configurazione). Si tratta della relazione delle classi sociali all'interno dell'involucro capitalista. Nel pretendere che il capitalismo sia una società di classi, i marxisti - che si richiamano sempre al solo Marx essoterico - credono di aver detto l'essenziale. E gli apologisti [del capitalismo] cercano di relativizzare tale constatazione rispondendo che il capitalismo aveva avuto largamente ragione della società di classe grazie allo Stato provvidenza ed al miglioramento delle condizioni di lavoro.
In questo dibattito, benché si pretenda la riflessione teorica, quella che non viene posta è una questione - e in ogni caso, non viene posta seriamente: come sono apparse le classi sociali, come si riproduce, giorno dopo giorno, il loro costituirsi in società. La ragione di un simile disinteresse è semplice: in questa prospettiva sociologica ridotta, le condizioni sociali vengono alla fine ridotte a delle pure questioni di libero arbitrio. Il capitalismo esiste perché i suoi attori lo "vogliono". Quindi, il capitalismo si confonde per così dire con i capitalisti (i proprietari privati di un capitale-denaro, ma anche i manager) in quanto tali o come collettivo sociale della classe capitalista. È questa volontà dei soggetti capitalisti che ha sottomesso alla propria legge la maggioranza della società intesa come lavoratori salariati. Di conseguenza, la proprietà privata dei mezzi di produzione appare come l'istituzione centrale di tale volontà capitalista. Secondo la formula consacrata, la monopolizzazione sociale dei potenziali produttivi dà ai capitalisti solo il diritto di decidere sul loro utilizzo. L'assoggettamento, o come lo chiana Marx, "lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo", sembra così avvenire in un rapporto di dominio attraverso la proprietà privata, nel rapporto sociale fra i capitalisti ed i salariati. Nella misura in cui si tratta allora di un rapporto sociale, questo non può essere altro che un rapporto di classe. Secondo tale versione, la sola differenza con una società in cui regnano dei rapporti di dipendenza personale fra signori e servi è che la dipendenza ha assunto un carattere collettivo, di modo che ciascun individuo salariato non dipende più da un padrone vero e proprio (come nel feudalesimo e nella schiavitù), ma dalla classe capitalista nel suo intero.
Riducendo in questo modo il concetto non solo del modo di produzione e della formazione sociale a dei rapporti di volontà fra classi sociali, codificate ed istituzionalizzate sotto forma giuridica (proprietà dei mezzi di produzione sociale), l'aspetto negativo e distruttivo del capitalismo sembra in qualche modo rinviare al carattere di classe dominante degli attori capitalisti. Quindi, il concetto di capitale può improvvisamente e semplicemente coincidere in tutto e per tutto con quello dei mezzi di produzione materiale (macchine, edifici ed altro), anche nella formulazione marxista ed in materia di economia politica borghese. In questo caso, il capitale in quanto tale non è più un rapporto sociale, ma diventa un oggetto concreto, mentre la relazione sociale imposta dal capitale assume la figura di opposizione di classe, sul piano sociologico apparente.
Se andiamo fino in fondo a questa prospettiva, mettendo al lavoro ed "utilizzando" la classe assoggettata dei lavoratori salariati per dei fini personali, vediamo che la classe dominante dei proprietari capitalisti persegue un proprio interesse particolare, che è l'interesse soggettivo della sua classe. A questo si oppone un altro interesse, l'interesse contrario della classe degli operai salariati. Quest'opposizione di interessi ha naturalmente come risultato una lotta di interessi ed ecco, di fatto, la buona vecchia lotta di classe. Estrema conseguenza della critica del capitalismo, questa quintessenza del marxismo del movimento operaio suggerisce implicitamente (e spesso esplicitamente) di sbarazzarsi in un modo o in un altro dei capitalisti, possibilmente imprigionarli o tagliare loro la testa - tanto per riprendere l'idea e la pratica della Rivoluzione francese borghese. In ogni caso, bisogna togliere loro il giocattolo, quindi espropriarli, di modo che la gloriosa classe operaia possa poi far funzionare il capitale materiale sotto la sua propria direzione e nel suo proprio interesse.
Si tratta quindi solo di pura logica: se il capitalismo consiste in un potere di disposizione giuridica a favore di una classe dominante, esso allora cessa di esistere a partire da un cambiamento formale della proprietà rispetto alle due classi. Si può trovare una testimonianza, toccante per la sua ingenuità e davvero comica, di questo pensiero marxista nei "certificati di esproprio" ufficiali che, al momento della fondazione dell'ex Repubblica Democratica Tedesca, sancivano il passaggio delle imprese nelle mani del popolo, intendendo così che d'ora in poi sarebbero state delle imprese collettivizzate (« Volkseigene Betriebe » o VEB).
Traspare qui assai bene il campo concettuale di questo marxismo cui si appoggia il movimento operaio storico per legittimare la sua lotta di classe, che in realtà non aveva altro fine che essere riconosciuto nel capitalismo. È innegabile che questa versione si ritrovi anche in tutta l'opera di Marx. È proprio nel contesto di questo campo concettuale che il Marx essoterico si rivela come un teorico puro della modernizzazione. Ci sono soprattutto due problemi con cui si scontra questa concezione ridotta del capitalismo così come viene data dal marxismo corrente e dove si attua il passaggio dall'argomentazione e dalla critica essoterica all'argomentazione ed alla critica esoterica in senso alla critica marxista.
Da un lato, la riduzione del concetto di capitalismo a dei rapporti di volontà è del tutto incompatibile con l'oggettività "di ferro" (ripresa da Hegel) del processo storico con le sue necessarie tappe di sviluppo e con le sue formazioni sociali. Visibilmente, la volontà soggettiva propria alla classe e portata avanti per l'interesse non è ciò che costituisce il capitalismo, ma questa volontà sociale è inglobata in qualcos'altro che è un'oggettività che la trascende.
Questo è ancora più evidente quando Marx ed il marxismo continuano a parlare, con la più grande chiarezza, di "leggi" del modo di produzione capitalista, perfino delle sue "leggi naturali". Dal punto di vista positivista, qui ci si avvicina, come avviene con il concetto materializzato di capitale, al pensiero dell'economia borghese per la quale, come è noto, le leggi del capitalismo sono identiche alle leggi che si pretendono naturali della riproduzione sociale in generale. Ma anche se si riconosce che queste "leggi economiche naturali" sono solo delle leggi storiche, limitate al modo di produzione specificamente capitalista, rimane un problema: il carattere oggettivo e proprio alle leggi "naturali" delle strutture di riproduzione e delle forme di movimento e di sviluppo capitalista sono in profonda contraddizione con la loro concezione ridotta a dei rapporti sociologici di classe e a dei rapporti di volontà giuridica.
Il marxismo ha semplicemente rinunciato a far conoscere e a risolvere questa contraddizione, del resto non l'ha nemmeno vista.
È per questo motivo che la teorizzazione marxista si è sempre necessariamente dissociata in una teoria della società, "oggettivista" ed "economista" (quasi scientifica) da una parte, ed una teoria dell'azione "soggettivista" (politica e giuridica) dall'altra. Questa schizofrenia riproduce il disaccoppiamento del pensiero borghese moderno in generale. A partire dalla filosofia dei Lumi, questo pensiero non smette di dissociarsi, proclamando, da un lato, una società umana che, come la rotella di un orologio, funziona quasi automaticamente, secondo le leggi di un sistema (la "mano invisibile" dei mercati e dei meccanismi di regolazione cibernetica che mettono l'uomo sullo stesso piano degli insetti o degli ingranaggi) e, dall'altro lato, il "libero arbitrio", la "autonomia dell'individuo", la "responsabilità" e la "libertà politica" (democrazia).
Il marxismo del movimento operaio non ha rotto affatto questo dilemma del pensiero borghese, ma vi si è adattato e (nel caso della modernizzazione in ritardo del 20° secolo) l'ha integrato nel socialismo. Quest'ultimo doveva anch'esso funzionare secondo le leggi economiche oggettivate e naturali (soprattutto quelle non soppresse della produzione di merce), ma allo stesso tempo doveva incarnare la volontà del proletariato e del suo partito diventato Stato.
Vista da un altro lato, l'argomentazione marxista si ingarbuglia quando si pone la questione del senso di questo sistema. Certo, il pensiero assai saggio della lotta di classe si è affrettato a trovare una risposta: il fine del capitalismo consiste naturalmente nel fare sfruttare i lavoratori salariati dai capitalisti. Se questi ultimi desiderano così ardentemente il capitalismo, ciò è perché esso apporta loro il famoso "plusvalore" che i capitalisti estorcono alla parte bisognosa dell'umanità. Evidentemente, ci sono delle pagine del Marx essoterico - dove si parla di "lavoro non remunerato", grazie al quale i lavoratori salariati producono questo valore supplementare che eccede il controvalore dei loro costi di riproduzione (percepito sotto forma di salario) e di cui i proprietari capitalisti si appropriano per arricchirsi -che possono essere interpretate esattamente in questo senso.
La conseguenza sembrerebbe che la valorosa classe operaia si appropri essa stessa del plusvalore prelevato, dopo aver messo gli sfruttatori alla porta, e che essa riceva la totalità del prodotto del suo lavoro e che gli venga pagata la parte non remuneratata del suo lavoro.
Il marxismo fu anche obbligato a riconoscere, naturalmente, che tutta la società necessità di reinvestimenti, destinati a rinnovare i mezzi materiali di produzione, e a costituire delle riserve. Questi prelievi necessari sul prodotto del lavoro verrebbero quindi impiegati a beneficio della comunità per mezzo delle istituzioni proprie della classe operaia (o meglio per mezzo del suo partito-Stato).
Tuttavia, questa risposta apparentemente così semplice e chiara espressa a bruciapelo pone qualche problema. In realtà, essa dà l'impressione che i proprietari capitalisti che si appropriano del plusvalore dilapidino questi profitti soprattutto a titolo di ricchezza personale. Il rapporto capitalista quindi sembra essere solamente una variante del rapporto, in qualche modo senza tempo, fra povertà e ricchezza. I concetti marxisti di plusvalore (sotto la forma del denaro) e di plusprodotto (sotto la forma dei beni materiali) vengono praticamente utilizzati come sinonimi. Su tale punto, le forme di appropriazione feudale e capitalista non sembrano differire se non per il tipo di proprietà (proprietà fondiaria per il primo e proprietà privata dei mezzi di produzione per il secondo).
Gli è che i signori feudali classici in effetti hanno letteralmente divorato il plusprodotto materiale sotto forma di imposte in natura; ma anche questa dissolutezza è sempre stata legata a differenti modalità di distribuzione che permettavano a servi, villani ed altri, di ricevere in un modo o nell'altro delle briciole. Anche per quanto riguarda le ricchezze pre-capitaliste, i signori non avevano stomaci abbastanza grandi. Nella sua manifestazione capitalista, la produzione di ricchezza divenuta esorbitante sfugge del tutto all'appropriazione soggettiva e sensibile attraverso il processo dei mezzi di produzione. Imprenditori e manager non possono consumare personalmente l'enorme plusprodotto, cioè quello che esce dalle loro fabbriche sotto forma di lucido da scarpe, bombe a mano, polli arrosto o libri in edizione tascabile che eccede il controvalore dei salari. Anche facendo dei grossi sforzi, non riescono a trasformare i loro guadagni in prodotti di lusso destinati al loro uso personale, e d'altronde in ogni caso non ne hanno il tempo. Al contrario, sotto pena di fallire, sono obbligati a reinvestire gran parte del plusprodotto (e quindi del plusvalore) riconvertito in denaro nel processo di riproduzione capitalista su scala allargata.
Perciò nessuno trae realmente benefici dalla maggior parte del "lavoro non pagato", se con questo intendiamo il godimento reale della ricchezza prodotta. Di conseguenza, una grande massa di prodotti non viene destinata al godimento. Si tratta di un aumento della produzione per la produzione - un fine in sé irrazionale. Ecco cos'è esattamente quello che il Marx esoterico ha definito feticismo di un tale modo di produzione, proprio come operavano i feticci nelle società premoderne. Marx ha trovato un nome anche per il meccanismo specifico della divinità feticcio capitalista: il "soggetto automatico". Benché questo termine appaia fin dall'inizio de "Il Capitale", i marxisti ben istruiti dal capitale rimangono attoniti nel percepirlo come un non senso relativamente bizzarro. In realtà, Marx designa con questo termine il cuore stesso del paradosso del rapporto sociale capitalista, che non può essere assolutamente spiegato per mezzo del rapporto di classe e di sfruttamento fra lavoratori salariati e capitalisti.
Al contrario, si ha la subitanea impressione che, nel capitalismo, tutte le classi e le categorie in generale siano altresì solo categorie di funzione di questo soggetto automaticco cui sono subrodinate e che, di fatto, dovrebbe costituire l'oggetto propriamente detto della critica del capitalismo. I proprietari capitalisti ed i manager non sono attori sovrani dell'organizzazione capitalista più di quanto lo siano i lavoratori che si trovano in fondo alla scala sociale. Essi stessi non sono altro che dei [funzionari] permanenti dell'accumulazione del capitale in quanto fine in sé. Il colmo dell'ironia è che il vero soggetto dominatore è un oggetto morto: il denaro, che, retroagendo su sé stesso, diviene il motore fantasmagorico della riproduzione sociale.
Quel che ne risulta è un'assurdità senza precedenti: gli uomini si sono trasformati in mere appendici [supporti, portatori...] di un'economia diventata autonoma, i cui movimenti li fanno essere alla sua mercede, come i lemuri sono alla mercede del loro "oscuro istinto". La loro stessa attività sociale li affronta come se fosse una potenza estranea ed esterna appartenente ad un sistema cieco; la loro socialità stessa è andata a finire nei prodotti morti e nel denaro che li rappresenta, mentre essi stessi si comportano come esseri non sociali sotto la parvenza di un concorrenza anonima. Tale concorrenza costituisce a sua volta la forma di relazione comune a tutte le classi capitaliste e a tutte le categorie di funzione: non solo i lavoratori salariati si trovano in concorrenza con i proprietari di capitale, ma anche i proprietari di capitale e gli operai si fanno ugualmente concorrenza fra di loro. E così come gli interessi di ciascuno, in quanto produttore, sono in conflitto con i suoi stessi interessi contrari di consumatore, ogni uomo è in un certo qual modo il suo proprio concorrente!
Se quest'impero del tutto demente di un soggetto automatico concretizzato è così difficile da comprendere, cio' è dovuto -  dal momento che "il denaro" ed "il mercato" sembrano esistere fin dalla notte dei tempi - al fatto che l'ordinaria comprensione capitalista immagina il sistema che la governa solo nella sfera della circolazione, nella sfera dello scambio, e quindi sviluppa degli interessi di mercato e di distribuzione relativamente a delle categorie che non vengono messe in discussione e che appaiono impossibili da analizzare. Il pensiero del marxismo del movimento operaio non poteva andare più lontano.
In realtà - dice il Marx esoterico riferendosi al soggetto automatico irrazionale - in tutte le società precapitaliste, denaro e mercato non sono stato altro che dei fenomeni marginali e sporadici, mentre la gran parte della riproduzione si basava su una "economia in natura" e si svolgeva sotto altre forme. Un'economia monetaria ed un'economia di mercato estese appaiono solo a causa della retroazione capitalista del denaro su sé stesso. In questo caso, la produzione di merci [qui nel senso di "beni"] non è più un obiettivo finale; ma è solo un mezzo di valorizzazione del denaro visto come fine in sé, un mezzo di accumulazione infinito di capitale-denaro per sé stesso.
In queste condizioni, i produttori indipendenti non possono più incontrarsi su un mercato: la massa di lavoratori salariati è un "soggetto denaro-soggetto mercato" per il semplice fatto che essi stessi si rivolgono al mercato del lavoro, mentre i proprietari di capitale appaiono come semplici rappresentanti del soggetto automatico. Secondo Marx, tutti gli individui coinvolti vengono abbassati al rango di "maschere di carattere" che definiscono delle categorie economiche. Il mercato non è più una sfera di libero scambio, ma è unicamente la sfera della realizzazione del plusvalore, dunque nient'altro che una stazione [tappa] nel processo della vita [sociale], nella perpetua metamorfosi del soggetto automatico.
Gli apologeti del capitalismo hanno continuato a cercare di giustificare con enfasi il carattere paranoico di una simile costruzione sociale, dichiarando che ad essa era legato l'aumento delle forze produttive imposto dalla concorrenza anonima , che portava automaticamente ad un amento del benessere. L'esperienza pratica vissuta dalla schiacciante maggioranza dell'umanità nel corso della storia capitalista dimostra esattamente il contrario. Dal momento che il fine non è la produzione di beni, ma è solo un semplice mezzo per valorizzare il denaro, il benessere non può più essere un fine, tutt'al più è un residuo temporaneo del capitale.
Mentre, nelle società agrarie fondate sull'economia in natura che hanno preceduto l'epoca moderna, indigenza e povertà erano innanzitutto determinate dal fatto che gli uomini erano soggetti alla "prima natura" e al basso livello delle forze produttive, il capitalismo invece genera una povertà secondaria, di origine puramente sociale. Dal momento che la produzione a come solo fine una massimizzazione astratta dell'unità denaro, per la prima volta nella storia non si produce per soddisfare dei bisogni. Questo spiega perché, allorché non è possibile raggiungere quanto meno un tasso di profitto medio, si bloccano o si riducono i mezzi di produzione, rimasti intatti, nel mentre che, allo stesso tempo, le persone sono private del necessario. E quando la legge del movimento del soggetto automatico lo esige, la forza produttiva cresciuta in maniera esorbitante fa scorrere un fiume di automobili, di svincoli autostadali e missili, mentre una folla di persone rimane senza casa e ci sono bambini affamati perfino nei paesi ricchi.
Tuttavia, la dissociazione sistematica del fine della produzione dalla soddisfazione dei bisogni, che costringe ad una deviazione grottesca delle risorse, non può essere risolta né attraverso un semplice cambiamento del potere o della forma in seno alle categorie capitalistiche né per mezzo di un cambiamento unicamente giuridico della proprietà, da una classe sociale all'altra, o con il passaggio da un soggetto che occupa una funzione ad un altro soggetto: bisogna sopprimere il soggetto automatico irrazionale e le leggi che lo governano e che sono divenuto a causa sua una seconda natura. In questo inizio del 21° secolo, adesso che il marxismo essoterico del vecchio movimento operaio così come la modernizzazione di recupero della periferia capitalista si sono esauriti, il concetto di capitalismo sociologicamente ridotto è anch'esso esaurito. Ormai, quello che è all'ordine del giorno della teoria critica è l'altro concetto di capitale, quello del Marx esoterico, che assume come oggetto il dominio concreto del soggetto automatico - in quanto forma teorica di un movimento sociale pratico che non difende più la forma comune della concorrenza anonima, ma critica questa forma e trionfa su di essa.
La scelta che segue, dei testi di Marx, si concentra su questo concetto di capitale che supera la comprensione del marxismo del movimento operaio ed i suoi paradossi. Tale scelta include l'analisi - anche se limitata allo stretto necessario - dei meccanismi di funzionamento capitalista. È solo comprendendo il capitale nel senso del "soggetto automatico" che ci si potrà fare un'idea dei suoi meccanismi di funzionamento, un'idea che non si inganna sull'analisi di Marx vedendoci un'esposizione positivista puramente oggettiva, ma che invece la comprende per quello che ha voluto dire, ossia una critica radicale di un'oggettivizzazione erronea e distruttiva dei rapporti sociali.
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

martedì 16 agosto 2016

Sveliamo il trucco del Grande Debito


Marco Bersani - tratto da http://ilmanifesto.info

Nel 2015, secondo l’Istat, le famiglie che in Italia vivevano in povertà assoluta sono diventate 1 milione e 582 mila, pari a 4 milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005.
Sempre nel 2015, una ricerca Censis-Rbm calcola in oltre 11 milioni (coinvolto il 43% delle famiglie italiane) le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a cure mediche adeguate, a causa delle difficoltà economiche. Nel medesimo anno, come in tutti gli anni precedenti, lo Stato ha pagato 85 miliardi di euro solo per gli interessi sul debito pubblico.
C’è connessione fra queste cifre? Chi dice di no non ha mai fatto parte né della categoria della povertà assoluta, né di quella che fatica a curarsi adeguatamente. E’ per questo che considera il debito pubblico italiano come essenzialmente dovuto alla dissennatezza collettiva dell’aver vissuto per anni «al di sopra delle proprie possibilità» e trova ora normale doverne pagare lo scotto (interessi compresi), sapendo che ricadrà su ben precise fasce di popolazione.
Ma è andata davvero così? Naturalmente no e pochi dati bastano a dimostrarlo.
Negli ultimi 20 anni, il bilancio dello Stato si è chiuso in avanzo primario (rapporto fra entrate e uscite) per 18 volte e la parte dei cittadini che ha sempre pagato le tasse ha versato allo Stato almeno 700 miliardi di euro in più di quello che ha ricevuto sotto forma di beni e servizi.
Come mai allora il nostro debito continua a veleggiare oltre i 2.200 miliardi di euro? Perché dal divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia nel 1981, e la conseguente fine della copertura «in ultima istanza» da parte di quest’ultima dei prestiti emessi dallo Stato, gli interessi da pagare sul debito sono saliti alle stelle, tanto che ad oggi abbiamo già collettivamente pagato oltre 3.000 miliardi di interessi su un debito che continua a salire e che auto-alimenta la catena, ingabbiando la vita e i diritti di tutti.

La spesa per interessi è pari a oltre il 5% del Pil e rappresenta la terza voce di spesa dopo la previdenza e la sanità. Se a tutto questo aggiungiamo il fiscal compact, ovvero l’impegno preso in sede europea a riportare il rapporto debito/Pil dall’attuale 130% al 60% nei prossimi venti anni, con un taglio conseguente della spesa pubblica di circa 50 miliardi/anno, il quadro della trappola diviene evidente: il debito serve a trasferire risorse dal lavoro al capitale e a consegnare ai grandi interessi finanziari, attraverso alienazione del patrimonio pubblico e privatizzazioni, tutto ciò che ci appartiene.
E la sottrazione di democrazia messa in campo con la riforma costituzionale, sulla quale si voterà in autunno, rappresenta solo il tentativo di approfittare della crisi per approfondire le politiche liberiste, sostituendo la discussione democratica con l’obbligo alle stesse e il necessario consenso con la collettiva rassegnazione.
La trappola del debito diviene ancor più evidente se poniamo l’attenzione sugli enti locali e le comunità territoriali, ormai giunti al collasso finanziario, grazie al combinato disposto di patto di stabilità (e pareggio di bilancio), tagli ai trasferimenti e spending review: quanti sanno infatti che, nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia pari solo al 2,4%, sugli stessi si sia scaricata la maggior parte delle misure, al punto che dal 2008 i tagli delle risorse a loro disposizione siano passati da 1.650 a 15.500 miliardi (+900%) ?
Di fronte a questi dati, possiamo continuare a dire che il debito è ineluttabile e a considerare gli interessi sullo stesso normale parte del contratto stipulato? Possiamo continuare a pensare che il debito, in quanto colpa, va saldato e trovare normale che a quella cultura si educhino intere generazioni già nella scuola, con la trasformazione dei giudizi sull’apprendimento in «debiti» e «crediti»? Credo di no e, a sostegno d questa tesi, basta leggersi l’art.103 della Carta dell’Onu, quando pone l’obbligo di ogni Stato a garantire pace, coesione e sviluppo sociale sopra ogni altro e qualsivoglia impegno contratto dallo stesso.
Del resto, qualcuno può ritenere sostenibile mantenere un debito, che oltre allo stesso, comporti la sottrazione annuale di 135 miliardi di euro di risorse collettive, per pagarne gli interessi e per adempiere al fiscal compact?
Da che mondo è mondo, non si è mai visto un creditore anelare al pagamento del debito. L’usuraio teme due soli eventi nella sua «professione»: la morte del debitore e il saldo del debito, perché, in entrambi i casi, perderebbe la fonte periodica del suo sostentamento –gli interessi- e la possibilità di dominio sull’altro e sulle sue scelte in merito ai suoi averi e proprietà (nel caso degli Stati, i beni comuni).
Ecco perché il debito deve smettere di essere un tabù e deve divenire parte concreta delle battaglie per un altro modello sociale. Se il debito è oggi agitato come «lo shock per far diventare politicamente inevitabile, ciò che è socialmente inaccettabile» (Milton Friedman), occorre che le popolazioni passino dal panico prodotto dallo shock –che comporta paralisi, ripiegamento individuale e adesione alla narrazione dominante- alla sana pre-occupazione, ovvero alla capacità collettiva di iniziare ad occuparsi di sé, della collettività e del comune destino.
Rifiutando la trappola del debito e rivendicando a tutti i livelli –locale, nazionale e internazionale- la necessità di un’indagine indipendente e partecipativa che sveli quanta parte del debito è illegittima e quanta parte è odiosa –dunque da non pagare- e che affronti, partendo dall’incomprimibilità dei diritti individuali e sociali, tempi e modi del pagamento dell’eventuale restante parte legittima.
Di tutto questo se ne discuterà all’università estiva di Attac Italia, a Roma dal 16 al 18 settembre, in una serie di seminari che, partendo dal debito internazionale (con la presenza di Eric Toussaint del Cadtm), arriverà a mettere a confronto le nuove esperienze di movimento e istituzionali nelle «città ribelli» di Barcellona, Napoli e Roma (http://www.italia.attac.org/index.php).
Un’occasione per liberare il presente e riappropriarci del futuro.

Desiderio di filosofia. Metafisica della felicità reale di Alain Badiou

WCreek HopperCome molti lettori sanno, Rimbaud utilizza una strana espressione, «le rivolte logiche», che fu anche titolo di una bella rivista fondata da Jacques Rancière e altri amici. La filosofia è qualcosa dello stesso ordine: una rivolta logica. È la combinazione tra un desiderio di rivoluzione – la felicità reale impone che ci si sollevi contro il mondo per com’è e la dittatura delle opinioni prefissate – e un’esigenza di razionalità – la pulsione in rivolta da sola non basta a raggiungere gli obiettivi che si prefigge.

Il desiderio di filosofia è appunto, in un modo estremamente generale, il desiderio di una rivoluzione nel pensiero e nella vita, tanto collettiva che personale, e ciò in vista di una felicità reale distinta dalla parvenza di felicità qual è la soddisfazione. La vera filosofia non è un esercizio astratto. Da sempre, fin da Platone, essa si erige contro l’ingiustizia del mondo. Contro lo Stato miserabile del mondo e della vita umana. Ma lo fa in un movimento che sempre protegge i diritti dell’argomentazione e che in ultima istanza propone una nuova logica all’interno dello stesso movimento con il quale essa libera il reale della felicità dal suo sembiante.
Mallarmé, dal canto suo, ci propone questo aforisma: «Ogni pensiero emette un lancio di dadi».
Credo che questa formula enigmatica indichi anche la filosofia. Il desiderio fondamentale della filosofia è quello di pensare e realizzare l’universale, tra l’altro perché una felicità che non sia universale, che escluda la possibilità di essere condivisa da qualunque altro animale umano capace di diventarne il soggetto, non è una felicità reale. Ma tale desiderio non è il risultato di una necessità. Esso esiste all’interno di un movimento che è sempre una scommessa, un investimento arrischiato. E in questo investimento del pensiero la parte del caso non è cancellabile.
È dunque dalla poesia che ricaviamo l’idea che vi sono quattro dimensioni fondamentali del desiderio che caratterizzano la filosofia, in quanto singolarmente orientata verso l’universalità della felicità: la dimensione della rivolta, quella della logica, quella dell’universalità e quella del rischio.
Non si tratta forse della formula basilare di un desiderio di rivoluzione? Il rivoluzionario desidera che il popolo si sollevi; che lo faccia in modo efficace e razionale e non nella barbarie e la furia; che la sua sollevazione abbia un valore internazionale, universale e non sia richiusa su una identità nazionale, razziale o religiosa; infine il rivoluzionario assume il rischio, il caso, la circostanza favorevole che spesso si dà solo una volta. Rivolta, logica, universalità, rischio: sono le componenti del desiderio di rivoluzione, sono le componenti del desiderio di filosofia.
Ebbene, io penso che il mondo contemporaneo, il nostro mondo, talvolta chiamato il mondo «occidentale», eserciti una forte pressione negativa sulle quattro dimensioni di un tale desiderio.
Anzitutto il nostro mondo è un mondo in parte inappropriato alla rivolta, o da essa non appropriabile. Non che non ve ne siano di rivolte, ma perché ciò che esso insegna o ha la pretesa di insegnare, è di essere nella sua forma realizzata già un mondo libero, un mondo nel quale la libertà è il valore organizzatore o un mondo tale per cui non occorre volerne o auspicarne uno migliore (in un senso radicale). Dunque, questo mondo dichiara di essere giunto, con delle imperfezioni (cosa che ci si sforzerà di correggere), alla soglia della propria liberazione interna, intima. E che insomma, in materia di felicità, è il mondo dal quale potersi aspettare le migliori proposte e le migliori garanzie.
Ma poiché questo mondo nello stesso tempo standardizza e commercializza le poste in gioco di tale libertà, la libertà che esso propone è una libertà di cattività, catturata da ciò cui è destinata nella rete della circolazione delle merci. Cosicché, in fondo, esso non è appropriato né all’idea di una rivolta che lo renda libero (vecchio tema, antiquato, della significazione stessa di ogni rivolta), poiché in un certo modo la libertà viene proposta dal mondo stesso, né è più appropriato a ciò che potremmo chiamare un uso libero di questa libertà, poiché la libertà è codificata o precodificata dall’infinito bagliore della produzione di merci e da ciò che a partire da essa l’astrazione monetaria istituisce. Ecco perché questo mondo ha nei confronti delle rivolte o della possibilità della rivolta una disposizione che potremmo definire insidiosamente oppressiva. In virtù della quale ciò che propone in merito alla felicità è già sospetto di corruzione latente.
Secondariamente, questo mondo è inappropriato alla logica e questo principalmente perché è sottomesso alla dimensione illogica della comunicazione. La comunicazione e la sua organizzazione materiale trasmettono immagini, enunciati, parole e commenti il cui principio assunto è l’incoerenza. La comunicazione, fissata dal regno della sua circolazione, giorno dopo giorno disfa qualunque legame e qualunque principio, in una specie di giustapposizione inaccettabile e sconnessa di tutti gli elementi che trascina con sé. Possiamo dire, inoltre, che la comunicazione ci propone in forma istantanea uno spettacolo senza memoria e che da questo punto di vista ciò che sostanzialmente disfa è una logica del tempo. Ecco perché sostengo che il nostro mondo è un mondo che esercita una forte pressione sul pensiero nel suo principio di consistenza e in un certo senso essa propone al pensiero una specie di dispersione immaginaria. Ma si può mostrare – e lo farò anche se in realtà lo sanno tutti – che una felicità reale è dell’ordine della concentrazione, dell’intensificazione, e non può tollerare ciò che Mallarmé chiamava «quei paraggi del vago in cui ogni realtà si dissolve».
In terzo luogo, questo mondo è inappropriato all’universale per due ragioni correlate. Anzitutto la vera forma materiale del suo universalismo è l’astrazione monetaria o l’equivalente generale. Nel denaro risiede l’unico segno effettivo di ciò che circola e universalmente si scambia. Poi, come sappiamo, perché questo mondo è allo stesso tempo un mondo specializzato e frammentario, organizzato da una logica generale delle specializzazioni produttive e da una tale enciclopedia dei saperi da poterne padroneggiare solo un esile frammento. Proponendoci simultaneamente una forma astratta e monetaria dell’universale e seppellendo sotto questa forma una realtà specializzata e frammentaria, questo mondo esercita una forte pressione sul tema stesso dell’universale nel senso in cui lo intende la filosofia. Tanto vale dire che la sua «felicità» è riservata a gruppi definiti e a individui concorrenti, i quali non mancheranno di difenderla come un privilegio ereditato contro la massa di coloro che non ne godono in alcun modo.
Infine, questo mondo è inappropriato alla scommessa, alla decisione azzardata, perché è un mondo nel quale nessuno ha più modo di lasciare la propria esistenza al caso. Il mondo, qual è ora, è un mondo dove regna la necessità di un calcolo di sicurezza. Niente è più sorprendente a questo proposito del fatto che l’insegnamento, ad esempio, sia organizzato in modo tale che risalga sempre più in alto la necessità del suo ordinamento al calcolo della sicurezza professionale e del suo adeguamento alle disposizione del mercato del lavoro. E che venga insegnato quanto prima che la decisione azzardata è figura da revocare e sospendere a vantaggio di un calcolo sempre più prematuro di una sicurezza che nel reale peraltro si rivela piuttosto incerta. Il nostro mondo consegna la vita al calcolo minuzioso e obbligato di questa dubbia sicurezza e ordina le successive sequenze esistenziali a partire da questo calcolo. C’è qualcuno che non sa che la felicità reale non è calcolabile? […]
Pongo dunque la seguente domanda: quale sarebbe il senso di scommettere l’esistenza, sottraendola all’imperativo di un calcolo di sicurezza personale, di gettare i dadi contro la routine, di esporsi a un azzardo qualunque, se non nel nome minimo di un punto fisso, di una verità, di un’idea, di un valore capace di prescriverci questo rischio? E senza questo punto di sostegno, come immaginare la forma generica della felicità di un Soggetto quale che sia? Confrontato alla scommessa e al frangente del caso attraverso il quale l’esistenza si investe nella propria novità, è allora necessario e ineludibile avere un punto fisso per riparo e appoggio.
Per preservare le quattro dimensioni del desiderio filosofico (rivolta, logica, universalità e scommessa) contro i quattro ostacoli che il mondo contemporaneo gli oppone (merce, comunicazione, astrazione monetaria e ossessione securitaria), occorre superare le tre dimensioni filosofiche dominanti: l’analitica, l’ermeneutica, la postmoderna. Vi è in effetti in queste tre opzioni qualcosa di troppo appropriato al mondo qual è, qualcosa che riflette esageratamente la fisionomia del mondo stesso. E, investita in queste opzioni, da esse organizzata, la filosofia finirà per sopportare, accettare la legge di questo mondo senza rendersi conto che negli ultimi tempi questa legge impone la scomparsa del suo desiderio.
Propongo allora di rompere queste cornici di pensiero per ritrovare o costituire all’interno di configurazioni rinnovate uno stile o una via filosofica che non sia né quella dell’interpretazione, né quella dell’analisi grammaticale, né quella dei bordi, degli equivoci e della decostruzione. Si tratta di ritrovare uno stile filosofico fondatore, deciso, alla scuola di quello che è stato lo stile filosofico e classico fondatore, di un Cartesio per esempio. Beninteso non è questione di fornire in questa introduzione anche solo un primo scorcio di quello che potrebbe essere il dispiegamento di una filosofia capace di sostenere la sfida del mondo preservando la radicalità del proprio desiderio.



da Alain Badiou, Metafisica della felicità reale, collana OPERAVIVA