mercoledì 25 gennaio 2017

Il super profitto come droga Di ilsimplicissimus


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Da qualche tempo e più ancora dopo l’elezione di Trump si parla o per meglio dire si favoleggia di un ritorno delle attività produttive via via delocalizzate nei Paesi a basso costo del lavoro: dapprima si è cominciato a dire che le nuove tecnologie robotiche permettono abbattere in maniera sostanziale la quota lavoro rendendo superfluo il trasferimento e poi persino tra gli ideologi di servizio delle elites neoliberiste si è cominciato a mettere nel conto economico la pace sociale e il livello di consumo messi in forse dalla preoccupante crescita della disoccupazione. Qualcosa si è visto qui e la, soprattutto nei settori più maturi, non ultima la rinuncia della Ford a impiantare l’ennesima fabbrica in Messico dopo la vittoria elettorale del Tycoon americano che basa buona parte della sua strategia e del suo appeal proprio su un ritorno del lavoro in Usa, ma nel complesso è poca cosa e per due motivi: innanzitutto produrre in aree a basso costo di lavoro significa godere – al netto di sconti fiscali o finanziamenti in solido quasi sempre presenti – anche di costi molto più bassi più bassi per tutta la filiera che va dalla progettazione al trasporto, se non paradossalmente alla produzione proprio della robotica avanzata che oggi per il 60 per cento viene da Giappone e Cina.
Ma il motivo principale è stato illustrato da Jack Ma, l’uomo più ricco della Cina e patron di Alibaba, il mercato on line dove è possibile trovare alla metà, un terzo, talvolta un quinto del prezzo i prodotti cinesi che sui circuiti normali vengono marchiati occidentale e per questo si fregiano di cartellini molto più alti: il fatto è che la globalizzazione ha portato i profitti a livelli tali non solo da dare avvio alla mutazione finanziaria del capitalismo, ma da diventare una droga della quale non si può più fare a meno. E francamente è un contrappasso elegante il fatto che la Cina sia oggi l’oppio con cui le elites occidentali cercarono di conquistarla meno di due secoli fa. Jack Ma, alias di Ma Yún al Forum di Davos ha difeso la globalizzazione e accusato le multinazionali americane di aver fatto per decenni utili stratosferici, prima assolutamente inconcepibili, che poi sono finiti nei paradisi discali, in patrimoni personali smisurati e soprattutto nelle borse tenendo in piedi l’economia di carta. E ha portato un esempio risalente agli anni 70 quando un cerca persone veniva prodotto in Cina per 8 dollari e venduto a 250. L’uomo è furbo perché ha evitato di irritare la platea paragoni più contemporaneo, quello dei telefoni tanto per dirne una, che spesso hanno prezzi di vendita 20 volte superiori a quelli di produzione (comprendendo in essi anche l’utile del fabbricante reale), per non parlare di televisori, computer e praticamente tutta la panoplia dei prodotti tecnologici.
Anche riuscendo a contenere i costi nella logica di una rilocalizzazione è del tutto evidente che non sarebbe possibile mantenere gli stessi livelli di profitto e che questi dovrebbero quanto meno ridursi della metà per tenere le vendite su un livello accettabile. Il che non è ovviamente possibile in una logica economica che si è plasmata attorno a numeri folli, a logiche in apparenza sofisticare, ma in realtà piuttosto rozze come del resto sono le leve di gestione. Certo, prima o poi il giochino di produrre a poco e vendere a molto si esaurirà, ma nessuno vuole anticipare i tempi e recitare il de produndis del neoliberismo che è l’ideologia di questo stato di cose: accadrà, ma nel frattempo si spera che le oligarchie saranno in grado di gestire qualsiasi disuguaglianza e il ritorno al lavoro servile, dentro un cosmopolitismo schiavista. Ecco perché qualsiasi deviazione da questa tabella di marcia, che rischia di desincronizzare i processi manda nei matti l’elite di comando.
Serve la sfera di cristallo per preconizzare lo sviluppo delle cose, ma intanto possiamo giudicare il passato e vedere come non sia stata la globalizzazione a creare i presupposti per la messa in mora della democrazia, del welfare, dei diritti e delle tutele, a portare al successo l’ideologia del profitto infinito, poco tassato o del tutto sfuggente, del privato contro uno stato demonizzato e ridotto a sbirro dei ricchi, ma è stato proprio questo coacervo di pensiero disuguale a suggerire la globalizzazione come strada maestra per dare la forza della necessità e del fatto compiuto ai propri paradigmi. Con le regole fiscali, bancarie e di scambio ancora in vigore nella prima parte degli anni ’70, quelle che per inciso avevano dato avvio in tutto l’Occidente a una crescita senza precedenti, il livello di profitto delle delocalizzazioni non sarebbe valsa la candela anche a fronte delle conseguenze politiche e di mercato che avrebbe provocato. Ma una volta iniettato sotto pelle il pensiero unico e indebolito l’avversario ideologico è stato possibile cambiare le regole del gioco regalando all’offerta tutto il potere. E cominciando ad impoverire tutti per arricchire pochi.

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