mercoledì 24 maggio 2017

Lo spostamento a destra della politica italiana. Cosa sta succedendo e come reagire, Scritto da Ex-OPG occupato "Je so' Pazzo"


È da un po’ di tempo che – presi dall’attività pratica e dalle lotte quotidiane – non scriviamo sulla fase politica del nostro paese. Eppure di cose importanti ne stanno accadendo, e meritano di essere analizzate con attenzione. In queste pagine vogliamo provare a restituire un quadro della situazione, e proporre alcune pratiche per reagire alla barbarie che nel nostro paese sta velocemente avanzando. Nella speranza di aprire un po’ di dibattito e trovare magari qualcuno che condivide le nostre stesse preoccupazioni. 
Divideremo il discorso in tre momenti: 
1. ricostruiremo velocemente cosa è accaduto dal 4 dicembre, giorno del NO al referendum costituzionale, fino a oggi, in cui la situazione politica italiana si è delineata con maggiore precisione; 
2. rifletteremo sui motivi dello spostamento a destra di tutto il quadro politico; 
3. cercheremo di capire come le classi popolari, le associazioni, i collettivi, i comitati territoriali, tutta quella galassia che si sente lontana dal razzismo e dall’odio, che ha a cuore i diritti dei lavoratori e dei subalterni, può reagire a questa situazione che ci danneggia tutti. 
   
1. Dal referendum a oggi
Non smetteremo mai di ripeterlo: il 4 dicembre è successo qualcosa di importantissimo, un’esplosione le cui onde si avvertono ancora. Il 60% di NO al referendum costituzionale ha rappresentato una sonora bocciatura non solo di Renzi, ma di tutte le politiche predisposte dal padronato negli ultimi anni. Politiche di austerità, che hanno portato – secondo tutte le statistiche! – a un aumento generalizzato della povertà, a una diminuzione dei servizi sociali (istruzione, sanità, trasporti…) e dei diritti. 
Su questo non ci dilunghiamo, perché tutti, persino gli analisti borghesi, vedendo come si è delineato il NO su una precisa linea di classe, al Sud, nelle periferie, fra i giovani, hanno potuto osservare che il voto ha rappresentato un forte messaggio che le classi popolari hanno mandato a Renzi e alla borghesia che governa il paese. L’alto tasso di partecipazione è significativo: appena le masse hanno avuto uno strumento per esprimersi, hanno detto a gran voce “non ne possiamo più delle vostre riforme, non ci serve cancellare la Costituzione, ci servono piuttosto misure per mettere fine allo scivolamento verso la povertà, ci serve lavoro vero, ci servono servizi e diritti”. 
Per questo il voto referendario ha rappresentato una brutta botta per il padronato italiano. Che a quel punto ha dovuto immaginare una via d’uscita dall’impasse politica che si è venuta a creare. Ma quali sono stati gli effetti del referendum e quale la via d’uscita? 
- Il primo risultato è che Renzi ha dovuto fare un passo indietro e l’azione del padronato, che aveva usato quel Governo come suo ariete, è stata rallentata o bloccata. Non si poteva andare con la stessa velocità di prima perché si rischiava di perdere troppo consenso. Si pensi alle politiche del lavoro (che sono al cuore del problema, visto che è attraverso il lavoro delle masse che si crea la ricchezza di cui il padronato si appropria poi in diversi modi). Prima del referendum, Renzi preparava una legge sulla “produttività”, che avrebbe dovuto aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Nei mesi successivi, temendo un altro voto referendario – questa volta sui quesiti proposti dalla CGIL, sull’articolo 18 etc –, il Governo PD è addirittura dovuto tornare indietro sul tema dei voucher (ora aboliti) e sul codice degli appalti! 
Ma è anche su altri temi che la politica del Governo PD ha dovuto rallentare: in particolare nel Mezzogiorno, dove la sconfitta era stata pesante, ha provato a mettere una pezza nominando ministro De Vincenti, che a differenza di Renzi ha ostentato un atteggiamento più dialogante (solo apparentemente, basti vedere la vicenda TAP, in cui il Governo ha assecondato in tutto e per tutto le multinazionali). 
- Il secondo risultato del voto referendario è stata la destrutturazione del PD, che è terminata con la scissione di una sua parte. Abbiamo assistito a un regolamento di conti interno al personale politico delle classi dominanti. Infatti, mentre una parte maggioritaria del PD, quella di Renzi, pensa di poter continuare perfettamente come prima, e dunque fare riforme che mirano a privatizzare i servizi e abbattere il costo del lavoro, di modo da rendere il paese più profittevole per gli investimenti dei capitalisti italiani e stranieri, un’altra parte vuole opportunisticamente cavalcare la domanda che proviene dalle masse per “recuperarla”. Attraverso la creazione di un “nuovo centrosinistra”, Bersani, D’Alema, Speranza, in parte Emiliano e Pisapia, vorrebbero introdurre qualche misura redistributiva che possa permettere di salvare capra e cavoli: di continuare a ottemperare alle esigenze dei centri di potere neo-liberisti ma anche di mantenere un po’ di consenso almeno fra i settori più strutturati delle masse (lavoratori dipendenti, operai, insegnanti etc). Questa strategia ha perso la battaglia dentro il PD e si propone come minoritaria a livello nazionale, anche se sul territorio Renzi ne pagherà le conseguenze, visto che il pezzo di partito che è uscito aveva militanti e contatto con la base. 
- Qui arriviamo al terzo risultato del Referendum. Anche se le persone non sono scese in piazza subito dopo il 4 dicembre (d’altronde le immediate dimissioni di Renzi, il periodo natalizio, l’incertezza generale e la mancanza di una chiara proposta mobilitativa hanno subito “raffreddato” gli spiriti), si è prodotto un ulteriore scollamento dalle masse dagli apparati di Governo. Se il Governo Renzi qualche piccolo entusiasmo – si ricordino gli 80 euro – l’aveva saputo suscitare, questo governo è visto da tutti gli italiani come inutile, autoreferenziale, lontano. Il segnale più importante che viene dalle primarie del PD non è certo la vittoria di Renzi, che solo il giornale di regime “La Repubblica” può presentare come un trionfo, ma il calo mostruoso di partecipazione. Notevole per un partito che è al Governo, che resta la maggiore e più visibile forza politica del paese, che gestisce quote non irrilevanti di potere nello Stato e sui territori… 
Così, per gestire senza troppi danni la botta del Referendum, c’era bisogno di un traghettatore, di una figura anonima che abbassasse la tensione nel paese, mentre però continuasse sotterraneamente a fare gli interessi di una parte del padronato. Questo è stato il Governo Gentiloni. 
Da un lato, visto che gli italiani dopo quasi un due anni di sovraesposizione mediatica di Renzi non ne potevano più, ci voleva qualcuno che li portasse a disinteressarsi della politica, che facesse sparire le grandi questioni del Governo dalla quotidianità degli italiani, che svolgesse l’ordinaria amministrazione e ottemperasse agli accordi presi a livello internazionale. Da un altro lato, Gentiloni doveva assicurare una continuità del Governo Renzi (si pensi all’opera di ministri come Lotti, Boschi, Poletti), perché gli affari dovevano procedere, c’erano nomine importanti nelle aziende pubbliche, bisognava assicurarsi i bacini di voti, respingere gli assalti di un’altra parte del padronato che voleva approfittare della situazione di sbandamento di Renzi per contrattare nuove condizioni di spartizione della torta pubblica. 
Nel frattempo nessuna forza politica in questi cinque mesi è stata interessata più di tanto a premere sull’acceleratore, a interpretare la domanda uscita dalle urne. Al di là di qualche polemica fisiologica per sottrarre all’avversario qualche voto, tutti hanno badato soprattutto a prepararsi alle elezioni. Per questo passaggio – che viene visto come momento di “chiusura della crisi”, anche se è evidente che non chiuderà alcuna crisi, come vedremo fra poco – c’è bisogno soprattutto di due cose: 
a) legge elettorale; 
b) organizzazione interna ed esterna delle tre maggiori forze politiche (PD, centrodestra e Movimento 5 Stelle). 
È per questo motivo che il paese è rimasto bloccato in questi mesi: era impossibile fare la legge elettorale se non si chiudeva la partita nel PD. Ora, con il ritorno di Renzi, ci si può accordare (e i 5 Stelle si dimostrano malleabili e tutt’altro che “uno vale uno”, viste le proposte di sbarramento e di premio maggioritario che mettono in campo…). Certo, è un dibattito non semplice nella misura in cui ognuno vuole fare le scarpe all’altro e cerca la legge elettorale che può permettergli di salire. Ma è un dibattito che troverà di sicuro un suo punto di convergenza contro le istanze popolari, che decisamente sarebbero meglio rappresentate da un proporzionale puro, che trasformasse il Parlamento nello specchio della società e permettesse l’ingresso nelle istituzioni di forze maggiormente collegate ai territori...  
Su b) organizzazione interna ed esterna dei tre blocchi, torneremo fra poco. Quello che ci interessa, in chiusura di paragrafo, è ribadire il dato politico complessivo di questi mesi. Nel momento in cui il popolo ha chiesto a gran voce la fine delle politiche di austerità, a questa domanda nessuno ha risposto proponendo l’unica soluzione conseguente e immediatamente attuabile: drenare risorse dalla grande borghesia al mondo del lavoro, per migliorare la condizione di vita delle masse. Tutti hanno ignorato completamente la domanda dal basso e fabbricato delle finte risposte. 
Non solo il PD o il PDL, ma anche le forze apparentemente più “innovative” dell’opposizione, Lega e Movimento 5 Stelle, hanno ripetuto esattamente quello che accade in Italia da 25 anni. Nessuno ha avuto intenzione di farsi portatore della domanda delle masse, perché nessuno ha voluto mettersi contro il padronato ed i poteri che governano il paese. 
Così, se con il voto referendario si è riusciti a rallentare l’attacco padronale, non si è riusciti certo a riequilibrare i rapporti di forza fra le classi. Questo rallentamento è stato senza dubbio positivo; ma rischia di diventare inutile se non siamo in grado di utilizzarlo per trasformarlo in un elemento di coscienza di classe, per mostrare che chi ci governa non è invincibile, ma che è una minoranza che può perdere, se non lo usiamo per organizzarci, imporre dal basso un altro ordine del giorno. Se non facciamo tutto questo, questo rallentamento servirà solo ad aver rimandato ulteriori sconfitte. 
Per certi aspetti è proprio questo quello che sembra accadere nelle ultime settimane. 
2. Lo spostamento a destra del quadro politico
Pensateci: una questione che non c’era nel voto contrario al referendum era quella della “sicurezza”. Nessuno ne parlava prima del referendum, nessuno ne parlava subito dopo. Nelle ultime settimane invece il dibattito si è caratterizzato proprio su questo tema – ovviamente tutto letto in connessione a quello dell’“immigrazione”. A rimettere insieme i pezzi del puzzle, la fotografia che esce dell’Italia fa paura: le sparate di Salvini senza ormai più nessuna reazione, la polemica dei 5 Stelle intorno alle ONG, le dichiarazioni vergognose della Serracchiani, sono il contraltare dell’azione del Governo e delle sue forze di polizia: rastrellamenti a Milano, blitz a Roma che causa la morte di un ambulante senegalese; multe a Ventimiglia a chi osa dare da mangiare agli immigrati… E ancora l’approvazione del Decreto Minniti, la riforma del diritto d’asilo, la legge sulla legittima difesa (in un paese in cui diminuiscono i reati!)… 
Si sbaglierebbe a pensare che queste siano risposte che le forze politiche danno dall’alto a delle domande sincere che vengono dal basso: se uno cercasse mobilitazione popolari su questi temi non troverebbe granché (quel poco che troverebbe è sempre roba manipolata da attori perfettamente riconducibili alla Lega o all'estrema destra: ogni volta si ripete sempre lo stesso schema, in cui di spontaneo c'è ben poco). Certo, decenni di propaganda di destra, uniti agli effetti della crisi, hanno sedimentato anche nella fasce popolari elementi di diffidenza, intolleranza, esclusione, che si riverberano nel linguaggio, nei pregiudizi, in una certa tensione nella condivisione degli spazi. Tuttavia questi elementi sono pompati mediaticamente proprio per incentivarli, mentre le pratiche e idee antirazziste, le esperienze di incontro e solidarietà, l’embrionale riconoscersi come appartenenti alla stessa classe, non riescono mai ad emergere, perché non c’è nessun megafono, nessuna forza politica che abbia il coraggio di sfidare il consenso tacito che c’è fra tutti e tre i blocchi – PD, centrodestra e Movimento 5 Stelle –: parlare di sicurezza e immigrazione per non parlare dei veri problemi, a cui non si può dare soluzione perché per dare soluzione si dovrebbe attaccare il padronato. E siccome tutti questi soggetti sono espressione di segmenti di padronato e non possono governare senza di questo, non lo possono attaccare.  
Così tutto il quadro politico si sposta a destra, nel silenzio accondiscendente e nella passività di tutto il mondo culturale e intellettuale (fa eccezione il solo Saviano al quale, davvero non pensavamo di poterlo mai dire, va riconosciuto il coraggio di aver detto cose in assoluta controtendenza). È davvero paradossale vedere come i temi economici e del lavoro che riguardano direttamente le masse popolari siano letteralmente scomparsi dall'agenda politica. D'altronde tutti hanno interesse a sviare dal vero tema che da qui a breve si imporrà ovvero l'ennesima manovra economica finalizzata a rispettare gli obiettivi di bilancio imposti dal Fiscal Compact (nei prossimi mesi si dovranno infatti trovare ben 20 miliardi, altrimenti scatteranno le cosiddette “clausole di salvaguardia”, ovvero l’aumento delle aliquote IVA, misura estremamente impopolare che nessuno si vuole accollare…).
Tornando allo spostamento a destra delle forze politiche istituzionali, possiamo affermare con certezza che il cambiamento più eclatante riguarda il Movimento 5 Stelle che ormai si è caratterizzato come partito reazionario. Un fatto particolarmente rilevante, non fosse altro perché riguarda, stando ai sondaggi, una forza politica fra il 27 e il 30% dei consensi che in questi anni si è presentata come “alternativa al sistema”.
Osserviamo l’attività dei 5 Stelle sfrondata da ogni propaganda, attenendoci ai fatti: all’indomani del referendum i 5 Stelle non mobilitano le piazze per dare seguito alla domanda popolare, non elaborano proposte di carattere redistributivo, non aprono problemi in Parlamento animando un dibattito sul governo Gentiloni o opponendosi ai suoi decreti più scandalosi (le critiche che fanno al Decreto Minniti o alla Legittima Difesa sono tutte da destra!). In accordo con le altre forze politiche prendono tempo e cercano di prepararsi alla tornata elettorale. Come lo fanno? Innanzitutto accreditandosi presso i poteri forti: da qui le visite internazionali negli USA e nei vari giri che contano, il convegno di Ivrea etc… Da un altro lato, mettendo bene in chiaro che non vogliono fare politiche di “rottura”. In questi mesi dicono di essere contrari alla patrimoniale, non riconoscono in alcun modo la contraddizione capitale/lavoro e le differenze di classe, dunque l’unica misura “sociale” che immaginano è un reddito di cittadinanza. Reddito di cittadinanza il cui finanziamento proviene solo in piccolissima parte dalla tassazione di chi in questi anni si è arricchito, ma da una molteplicità di misure molte delle quali di dubbia efficacia ed applicabilità. Misure che vanno dai tagli alla spesa pubblica, alla riduzione delle detrazioni fino ad arrivare al divieto di cumulo pensionistico, mentre curiosamente rimangono fuori le spese militari e in particolare le missioni all’estero.

Il caso Roma e il caso Torino da questo punto di vista sono emblematici. A Torino la Appendino, proveniente dalle classi borghesi della città, è di fatto la continuazione delle amministrazioni precedenti. Dalle cariche in piazza al 1° Maggio ai pubblici ringraziamenti alle forze dell’ordine per l’attività contro gli ambulanti “abusivi”, l’Appendino non ha portato alcun elemento di rottura, ma è pienamente compatibile con le logiche di gestione liberali della città. Gestione che ha trionfato anche a Roma. La Raggi, proveniente da ambienti contigui al centrodestra cittadino, ha scelto per la sua amministrazione la continuità più totale, ripescando una serie di nomi in auge nelle amministrazioni passate. Che le inchieste abbiano fatto saltare alcuni di questi nomi (Morra, Muraro), non certifica il loro “essere scomodi per il potere”, ma al contrario, una lotta tutta interna agli apparati di potere, nell’indifferenza dei cittadini romani che per lo più la subiscono. La partita dello Stadio ha attestato l’assorbimento della Raggi dentro la logica liberale: pur di essere riconosciuta come forza responsabile e di governo, l’amministrazione 5 Stelle ha permesso la gigantesca speculazione dei palazzinari romani, tradendo le istanze di molti…
Purtroppo questi aspetti problematici del movimento non riescono mai pienamente ad emergere perché da un lato non è su questo che si focalizza la critica del PD e dei media (attaccare i 5 Stelle su questi punti vorrebbe dire attaccare anche se stessi), e da un lato perché il dibattito interno alla loro compagine è davvero scarso. È veramente impressionante la capacità che hanno i dirigenti di orientare i propri sostenitori prescindendo da qualsiasi elemento di realtà. Nei confronti del Movimento c’è un atteggiamento fideistico che non ha nessuna forza politica: qualsiasi altra fonte di informazione che non siano i siti del Movimento viene infatti ignorata e pregiudizialmente giudicata inattendibile.

Ma, come dicevamo in precedenza, non sono solo i 5 Stelle ad essersi spostati a destra. Lo stesso PD con le ultime primarie ha dimostrato la propria collocazione tra le fila delle forze ultra-liberiste con simpatie destrorse. Il Partito Democratico si è infatti liberato definitivamente da un punto di vista simbolico e materiale di tutti i residui sia della sinistra social-democratica che del cattolicesimo sociale che in qualche modo rallentavano l’azione del gruppo dirigente. A differenza del M5S, il PD non gode di piena fiducia da parte della sua base ma grazie ad una fitta rete clientelare riesce comunque a mantenere un certo livello di consenso. Il gruppo dirigente del PD in questo momento sta operando in modo da aizzare le pulsioni più razziste del paese per potersi presentare, alla vigilia delle elezioni, come quelli che comprendono umanamente queste spinte ma a differenza dei razzisti più beceri le sanno temperare con un generico umanitarismo e con il rispetto delle regole. Il PD vuole presentarsi come la forza responsabile che sa governare il fenomeno, che sa fare sicurezza: per questo però ha bisogno che i mostri esistano (l’immigrato stupratore, il leghista anti-europeista) e siano ben presenti nell’immaginario complessivo.

In ultimo abbiamo il centrodestra. Con in primo piano la Lega Nord di Matteo Salvini, che in questi anni ha cercato di accreditarsi come forza non più regionale ma nazionale. La strategia di Salvini è estremamente semplice e ricalca sia politicamente che comunicativamente l’esperienza del Front National in Francia e dell’Alternative Right di Trump negli USA. Un esperimento, quello di Salvini, che però sembra essersi consumato. Salvini ha infatti una serie di problemi di non facile soluzione. Da una parte ha qualche difficoltà a far digerire questa svolta nazionale alla base storica della Lega e a una parte dell’apparato (anche se con le ultime “primarie” sembra aver liquidato l’opposizione interna), da un’altra ha un’oggettiva difficoltà ad accreditarsi al Sud a causa della storia del suo partito da sempre caratterizzato da un forte anti-meridionalismo. Infine, la connotazione regionale e secessionista della Lega gli impedisce di assorbire la galassia della destra nazionalista, che resta scomposta in altre formazioni. Non a caso i sondaggi danno da molto tempo la Lega inchiodata al 12-13%.
L’altro pezzo significativo del centrodestra, ovvero Forza Italia, ha invece adottato un atteggiamento attendista. Aspetta che si chiarisca meglio il quadro generale e in particolare la situazione dal punto di vista della eleggibilità di Silvio Berlusconi. Si sente più forte di prima perché sa che la Lega non ha possibilità di sfondare, e che ha bisogno dell’alleanza con loro e con Fratelli d’Italia, e pensa così di poter guidare la coalizione, magari recuperando vecchi ceti politico-clientelari sui territori (da qui la proposta di un proporzionale con premio di alla coalizione, per mettere su un listone di 10-15 formazioni che racimoli percentuali ovunque, come sta già accadendo nella tornata amministrativa).

Insomma, sul piano della politica istituzionale non c'è al momento nessuno in grado di contrastare la destra nelle sue varie declinazioni. Possiamo infatti chiudere questa carrellata con Sinistra Italiana e i fuoriusciti del PD: parliamo di soggetti la cui inadeguatezza umana, la cui ignoranza della vita della classe, la cui storia del tutto compromessa con le contro-riforme dagli anni ’90, li rende invisi alle masse. È davvero difficile ipotizzare che soggetti del genere possano giocare il ruolo che – partendo, andrebbe sempre ricordato, da una posizione di outsider – hanno giocato Syriza, Podemos e Mélenchon. Davvero difficile ipotizzare che questo ceto politico, litigioso, più preoccupato delle poltrone che dei cittadini, incapace di una proposta politica realmente di rottura, possa rispondere alle reali esigenze delle classi popolari e di suscitarne l'entusiasmo. Una volta che il PD di Renzi chiuderà la partita della legge elettorale, magari con una soglia di sbarramento alta, del 5%, non resterà a questo puzzle che mettersi insieme e sperare che la loro piccola base non opti per il “voto utile” a Matteo Renzi, in chiave anti-lega e anti-5 Stelle…

La situazione è quindi veramente brutta. Non possiamo sapere chi uscirà formalmente vincitore dalle elezioni che ormai si preparano ma, da un punto di vista sostanziale, possiamo affermare che sarà di certo la destra a vincere. Destra che potrebbe trionfare nella sua variante più reazionaria e fascista proprio a causa di questa folle competizione tra M5S, PD e Lega. Cosa fare per contrastare tutto questo?
3. Come reagire?
Da una situazione difficile non si esce facilmente. Quindi sarebbe assurdo pretendere di avere la Soluzione e di poterla esporre in una pagina. D’altra parte siamo stanchi di chi non sa offrire nessun tipo di appiglio, neppure in via sperimentale, e adotta una posizione attendista, immaginando di potersi sedere e aspettare che la bufera passi… Certo, se le masse irrompessero sulla scena pubblica facendo saltare questi equilibri, tutto sarebbe più facile: ma nel frattempo che questo accada, noi abbiamo comunque il compito di incentivare tale presa di coscienza, di educare e di autoeducarci, di sviluppare pratiche che possano da subito liberare i nostri territori, e dare al momento giusto la spinta decisiva.
Nella Lettera del mese scorso abbiamo provato a spiegare come ci stiamo organizzando e abbiamo sintetizzato alcuni concetti per noi centrali in questa fase: http://jesopazzo.org/index.php/blog/426-una-lettera-da-je-so-pazzo Ora vogliamo aggiungere alcune considerazioni su ciò che ci serve, sperando di aprire un dibattito a livello nazionale, o almeno di avere qualche riscontro. 
1. Dobbiamo imporre il nostro piano di gioco. Se le forze politiche istituzionali, non avendo risposte da dare ai veri problemi delle classi popolari, cercano di guadagnare consenso facendo leva sulle paure, alimentando odio e razzismo, noi dobbiamo rifiutare il loro piano di gioco. Dobbiamo sforzarci di portare il dibattito sul piano in cui noi abbiamo proposte e soluzioni, mentre loro non hanno nulla da dire e non possono fare nulla. Per quanto assurdo possa sembrare, siamo noi gli unici ad avere le ricette per migliorare la condizione di vita delle masse. Siamo noi che non abbiamo paura a dire dove vogliamo andare a prendere i soldi. Dobbiamo investire il piano politico-generale non solo facendo testimonianza, ma ponendoci in termini di proposte concrete, in grado di incidere realmente, di accumulare anche piccole vittorie tattiche, di avere un programma. 
L’insegnamento che viene dalla Francia è che, se si affrontano i temi che interessano le classi popolari, il riscontro in termini di consenso si ha. Non bisogna farsi ipnotizzare dall’avversario ma mantenere un contatto con le masse che ci permetta di interpretarne le istanze. Sembra una cosa estremamente complessa da attuare ma in realtà, come dimostra per certi versi il buon risultato di Mélenchon in Francia, è più facile di quanto non si pensi. 
2. Non cedere su antifascismo e antirazzismo. Ovviamente, non possiamo non pronunciarci sulle questioni sicurezza e razzismo. Ma non ci serve alcun “sì, ma…”: non c’è da scimmiottare o da inseguire la destra: dobbiamo avere in ogni contesto il coraggio delle nostre idee, internazionaliste, per la pace fra i popoli, contro le armi. Dobbiamo denunciare il carattere razzista e classista dei provvedimenti come quello di Minniti, fare corretta informazioni sui numeri, sui reati. E soprattutto proporre dei momenti di affratellamento, di comunicazione, in cui la potenza dei legami umani si mostri in tutta la sua bellezza. A un discorso di odio fra gli oppressi dobbiamo saper contrapporre un discorso di amore fra gli oppressi e di odio contro gli oppressori. Un messaggio semplice, quello di una nuova umanità. 
Nel frattempo dobbiamo applicare rigorosamente il controllo popolare sull’accoglienza, e mostrare che su quel tema c’è una convergenza palese fra Stato e mafia, che quei soldi sono tolti alle tasche degli italiani e non arrivano mai agli stranieri, che nella materialità italiani e stranieri hanno lo stesso nemico.  
3. In tutte le organizzazioni di sinistra serve una rottura forte con il passato. In termini di personale, generazionale, in termini di stile comunicativo. Non è una questione di inseguire il nuovo per il nuovo e tutte quelle sciocchezze che ci hanno propinato per anni. È un problema di credibilità dei dirigenti, di liberare energie ed entusiasmi. A guidare le organizzazioni di sinistra raramente troviamo dei combattenti: più probabilmente troviamo delle persone che ormai hanno accettato il loro ruolo subordinato, e anche se sono rimaste fedeli a certi ideali, non credono davvero che possano avere successo. Così è impossibile conseguire anche la più piccola vittoria. Non conseguire vittorie ti fa diventare risentito, più teso ad affossare gli altri piccoli gruppi con cui ti senti in competizione che a relazionarti alle masse e capire insieme come crescere. Dal Kurdistan, dalla Spagna, dalla Francia, ci è giunto un messaggio di tipo diverso: dobbiamo saperlo ascoltare. 
4. Non ci si può limitare alla metropoli. Sappiamo infatti "dove" si giocherà la partita politica in Italia: in provincia. Ormai è un dato assodato, come dimostrano le consultazioni elettorali e referendarie in USA, GB, Turchia e Francia, che è nella provincia che sfondano le forze della destra. Questa diventa quindi anche per noi una priorità che si traduce nel prestare massima attenzione e supporto a ciò che si muove nei piccoli centri. La destra sfonda non tanto o non solo dove il territorio è più povero o dove è più forte la crisi, ma dove incide di più la paura mediatica e l’ignoranza, dove c’è poca circolazione di cultura, di idee, di arte, di qualsiasi tipo di rinnovamento. Dove c’è poco presidio delle forze democratiche. Lì una piccola minoranza “cattiva”, attenta alla piccola proprietà, timorosa di vedere peggiorate le proprie condizioni, può ottenere una rilevanza politica nazionale, grazie all’attenzione dei media. Per questo dobbiamo cercare di rinforzare in ogni modo possibile l’intervento nelle province.  
Intorno a questi quattro punti pensiamo possa essere costruita una campagna nazionale, un maggiore livello di coordinamento, pensiamo si possano utilizzare questi mesi per animare il dibattito e per imporre dal basso il nostro ordine del giorno. Ricominciamo a parlare di come riprenderci la ricchezza e di quali sono i rapporti di produzione. È questo quello che le classi popolari vogliono sentire. 
E comunque la si pensi, è certo che non possiamo stare a guardare una partita fra Renzi, Grillo e Salvini. Diamoci una sveglia, la nostra vita merita di più, molto di più…

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