domenica 11 novembre 2018

Il popolo non esiste di Michele Filippini da Jacobin Italia



populismo 990x361È ormai difficile negare che l’Italia si trovi in un “momento populista”, caratterizzato dall’emergere di forze politiche nuove, nuovi discorsi politici e nuova costruzione di senso comune. Si tratta di una fase che, in altri tempi e con altra sensibilità, Antonio Gramsci aveva chiamato «guerra di movimento», un «interregno», una fase di passaggio verso la successiva stabilizzazione egemonica di un ordine. La rapida ascesa di partiti e personalità nuove (M5S, Salvini), l’altrettanto rapida caduta di altre (Monti, Renzi), l’elevata mobilità elettorale (il M5S che in pochi anni balza al 32,7% o la Lega che passa dal 4% al 32% dei sondaggi odierni) e la politicizzazione estrema di alcuni temi (Europa, migranti, sicurezza) sono tutti segnali di una fase di intensa ridefinizione dello spazio politico, dei soggetti in campo e delle loro parole d’ordine.
In un contesto come questo sembra perdere di significato la contrapposizione che aveva sostenuto quasi tutte le battaglie contro il neoliberismo degli ultimi anni: quella tra un discorso radicale-democratico di attivazione e contestazione del potere, e uno istituzionale governamentale di contenimento attraverso la spoliticizzazione. Al contrario, oggi più che mai il discorso del potere è un discorso populista e radicale, mentre la sua contestazione sembra relegata al piano della critica morale e paternalista. La crisi del neoliberismo ha riattivato le “faglie politiche” sulle quali si costruiscono i soggetti collettivi, e la destra razzista e i qualunquisti nostrani hanno compreso meglio di chiunque altro le opportunità di quest’apertura.
Il populismo razzista e quello democratico
È stata la crisi del 2008 a creare le condizioni per l’esplosione degli assetti politici che si erano consolidati negli anni Novanta e a far emergere lo spazio per nuovi discorsi e nuove formazioni. Non si tratta certo di un fenomeno solamente italiano, anche se da noi il successo della sua declinazione qualunquista (M5S) e poi razzista (Lega) ha raggiunto intensità e forza maggiori. Nel campo dei soggetti radicali e democratici, invece (cercherò quanto più possibile di evitare la connotazione “di sinistra”, ormai preda di un immaginario compromesso), si è avuta una prima ondata populista-democratica, tanto negli Usa quanto in Europa: ne sono protagonisti Podemos in Spagna, Bernie Sanders negli Usa e il Labour di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, a cui sembra stia seguendo una seconda ondata populista-sovranista, rinvenibile in alcune correnti de La France Insoumise, nella Aufstehen di Sahra Wagenknecht in Germania e in alcuni sparuti epigoni italiani.
Oltre ad essere molto più deboli dei cugini francesi e tedeschi, i politici e intellettuali sovranisti italiani “di sinistra” (e qui è d’obbligo l’uso del termine) hanno due caratteristiche peculiari: 
la prima è che sembrano formulare la loro proposta politica non in contrapposizione al populismo di destra (come fa Melenchon per esempio, pur contendendogli l’elettorato) ma alle altre declinazioni della sinistra, finendo così per sostenere una parte dei programmi e delle politiche dell’avversario; 
la seconda è di presentarsi con quelle stesse facce che fino a qualche mese fa facevano parte, seppur criticamente, di quei partiti e di quei circoli intellettuali che hanno applicato o giustificato le ricette neoliberali degli ultimi vent’anni. Insomma, nessuno con la storia e la credibilità di un Sanders o di un Corbyn, piuttosto la solita vecchia storia dell’amante deluso che si trasforma in detrattore. 
Non sarebbero quindi degni di nota, o di critica, se non rischiassero di inficiare una causa ben più importante, quella del populismo democratico-radicale della “prima ondata”, che ha radicalmente innovato lo scenario politico europeo e creato le condizioni per dare filo da torcere al populismo razzista dilagante.
In Italia quell’onda non è mai arrivata, e nell’ultimo decennio in molti si sono chiesti come fosse possibile che proprio il paese che aveva avuto il più grande partito comunista e la più lunga stagione di mobilitazione d’occidente potesse rimanere inerte davanti a una tale rinascita internazionale di forze radicali e democratiche. La risposta sta forse proprio nella saturazione della memoria che queste esperienze hanno lasciato, provocando due effetti opposti ma speculari nei mille gruppuscoli della “diaspora”: da una parte, come eredità del Pci, la nostalgia passatista del Soggetto politico (maiuscolo), la sua mitizzazione, ossificazione e sostanziale riproposizione come schema oggi vuoto di significato; dall’altra, come eredità della contestazione “da sinistra” al Pci, la paura della sintesi politica, l’incapacità di considerare lo Stato come un campo di forze invece che come un mero strumento repressivo, la ritrosia a invadere il campo avversario per paura di essere “contagiati”. Ma la storia procede anche per salti e cosa ne sarà della formazione politica delle nuove generazioni nessuno può saperlo. Per questo, se da una parte occorre difendere la causa del populismo democratico dal populismo razzista e qualunquista, dall’altra occorre contrastare la sua appropriazione da parte dei sovranisti nostrani “di sinistra”. Quello che ci occorre, in breve, è un populismo democratico non sovranista.
Tre insegnamenti di Laclau
In questo compito può essere utile rileggere Ernesto Laclau, filosofo argentino scomparso recentemente e unanimemente considerato il teorico del populismo democratico. La fortuna di Laclau è molto cresciuta nell’ultimo decennio, tanto da diventare un solido riferimento per molti intellettuali e dirigenti politici della prima ondata populista. Dalle pagine dei suoi libri possiamo recuperare almeno tre insegnamenti utili per salvare il populismo democratico dalla deriva sovranista.
Il primo è proprio che… il popolo non esiste. Non esiste come dato biologico, non esiste come espressione di un’“omogeneità culturale”, non esiste nemmeno come entità sociologicamente definibile. Esiste invece il popolo come costruzione politica (e polemica), composto da gruppi e individui diversi che si articolano, cioè si legano e si organizzano sulla base di un discorso comune. Così concepito, il popolo non annulla affatto le differenze al suo interno, ma riesce comunque a presentarsi come un soggetto politico unitario perché ciò che tiene insieme le sue parti è la comune avversione a un nemico politico. È abbastanza chiaro come questa definizione implichi la possibile esistenza di diversi popoli, anche all’interno della stessa platea, definiti sulla base del tipo di articolazione (solidaristica o securitaria ad esempio) e del tipo di nemico scelto (l’1% più ricco o i migranti). Se quindi il popolo evocato dal fronte razzista e qualunquista è omogeneo, spaventato, razzista, il popolo del populismo democratico può e deve essere plurale, vitale, inclusivo. Non è questione di buoni sentimenti, ma di mettere in campo una diversa interpellazione degli stessi soggetti, un meccanismo di unità che ricomponga un blocco sociale attorno a diverse parole d’ordine e che identifichi nemici diversi. Al contrario, i “sovranisti” di sinistra sembrano aver assunto dall’avversario la falsa contrapposizione tra un popolo rozzo, preda di bassi istinti, e un’élite intellettuale e sofisticata, lontana dai supposti “bisogni” di questo soggetto omogeneo. Chi accetta questa visione, chi si rassegna a fare la politica di queste paure, è subalterno al discorso dell’avversario, ma soprattutto sarà sempre politicamente perdente di fronte alla proposta originale.
Il secondo insegnamento che possiamo trarre della teoria del populismo di Laclau riguarda il ruolo dello Stato e del discorso nazionalista. Su questo tema si può dire che il sovranismo cambi ragione sociale al populismo democratico: si passa infatti da una critica di classe (espressa tramite la contrapposizione tra alto e basso) ai meccanismi antidemocratici, neoliberali ed elitisti della costruzione europea, alla difesa dello stato nazionale contro le ingerenze esterne. Non più quindi la critica all’Europa neoliberale come strumento per la lotta di classe internazionale, ma la critica all’Europa tout court tramite la costruzione di un’identità nazionale, il tutto condito con un bel po’ di nostalgia per l’epoca fordista a cui corrispondeva uno Stato tanto protettivo quanto disciplinare. È così che la domanda per una democrazia radicale, che al fondo significa possibilità di influire sulle decisioni attraverso una lotta per l’emancipazione di chi sta in basso, si è trasformata in sovranismo, rivendicazione ultima dello spazio nazionale come difesa dalle invasioni straniere, tanto quelle dei flussi del capitale globale quanto quelle dei migranti. È in questo scivolamento che la ragione sociale è cambiata, il discorso di classe abbandonato, la giusta rivendicazione di uno spazio di decisione democratica trasformato in un discorso subalterno a quello dell’avversario. Anche su questo punto – il ruolo dello Stato in una politica populista democratico-radicale – Laclau può venirci in aiuto. Benché spesso si presupponga che il filosofo argentino postuli un unico spazio politico a disposizione, quello statale-nazionale, caratterizzato da solidi confini (territoriali, istituzionali, culturali) e piena sovranità (politica, economica), in realtà questi elementi non vengono mai esplicitati come precondizioni dell’emersione di una logica populista. Al contrario. Scrive Laclau: «Quando diciamo “Stato” ci riferiamo a un concetto che indica una funzione ordinatrice all’interno di una formazione sociale. Può essere lo Stato-nazione, ma non necessariamente solo questo, può anche riguardare uno Stato sovranazionale, oppure una serie di funzioni ordinatrici che non hanno nulla a che vedere con la dimensione pubblica nel senso stretto del termine». Ecco allora un secondo insegnamento da tenere presente: non è la forma di questa azione ordinatrice che conta (Stato-nazione, Stato sovranazionale o una configurazione comune oltre il pubblico e il privato), ma il fatto che essa si crei, come si crei e in che direzione si crei a determinare l’importanza dell’azione populista. Rimettere il populismo democratico sui suoi piedi significa anche non fare dei mezzi contingenti di una battaglia tattica (la critica all’Europa neoliberale) lo scopo ultimo dell’azione populista (la difesa della sovranità nazionale).
Un terzo insegnamento che possiamo trarre da Laclau è che nessuna configurazione politica è stabile, soprattutto all’interno di quel momento populista dove le identità si modificano di continuo e la loro articolazione non è affatto definitiva. Questo non è “un paese di destra”, come ieri ci dicevano i complici delle riforme neoliberali e oggi ci ripetono i compagni demotivati. Nel linguaggio un po’ formalistico di Laclau: perché si manifesti un nuovo popolo non serve che «tutti gli elementi di una configurazione emergente debbano essere radicalmente nuovi», serve invece che emerga un «punto d’articolazione» nuovo, attorno al quale tutti gli altri possano ricomporsi diversamente, formando un’inedita configurazione popolare. In breve, serve un discorso di nuova emancipazione e un soggetto credibile che la incarni. Ancora una volta, su questo aspetto specifico, la declinazione sovranista del populismo democratico dimostra di essere subalterna al discorso dell’avversario, dando per consolidati e stabili il panorama politico, il tipo di articolazione raggiunta dai gruppi sociali e le richieste che questi formulano. Il momento populista è invece caratterizzato da movimenti continui, scomposizioni e ricomposizioni di forze, creazione rapida di nuove identità e bisogni. Questo non vuol dire che non ci sarà in futuro una fase di stabilizzazione, ma che gli assetti su cui questa fase si stabilizzerà vengono decisi ora, nel momento populista, da chi riesce a costruire i soggetti più credibili, da chi sa politicizzare le faglie giuste, da chi ha più immaginazione e coraggio politico, perché non c’è cosa più sbagliata e codarda di fare il populismo con il popolo degli altri.

*Michele Filippini si occupa di teoria politica, operaismo, populismo. Ha scritto Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società.

mercoledì 31 ottobre 2018

M5S e la metafora della rana bollita di Elena Fattori, Vice presidente commissione Agricoltura Senato

Alessandro Di Battista nei suoi comizi raccontava una interessante metafora:
"Immaginate una pentola di acqua bollente. Una rana non ci entrerebbe mai e se qualcuno ce la buttasse dentro, darebbe un colpo di zampa e si salverebbe. Ora immaginate la stessa rana in una pentola di acqua fredda. Il fuoco è acceso e l'acqua si scalda poco a poco. La rana non si preoccupa. Ma la temperatura sale ancora, l'acqua inizia a scottare. La rana ormai è debole, non ha più forza di reagire. Prova a sopportare. Poi non ce la fa più e muore bollita. Abituarsi è deleterio. Sono gli 'abituati' i cittadini più amati dal Governo. Io credo che siamo ancora in tempo a dare quel colpo di zampa prima di finire bolliti. Dipende soltanto da noi. A riveder le stelle!".
Ecco, ora immaginate se in uno dei tanti comizi e convegni appena qualche mese fa avessi raccontato questo:
"Il Movimento 5 stelle non fa alleanze, ma noi cambieremo il termine, ci alleeremo con la Lega e chiameremo questa alleanza "Contratto". Ricordate la bella presentazione dei ministri 5 stelle che vi avevamo chiesto di votare? Perché il Movimento presenta la sua squadra prima delle elezioni così il popolo può scegliere i suoi ministri. Ecco, non c'entra niente con la squadra di governo che verrà, ma voi non ci farete troppo caso. Avremo un presidente del Consiglio non eletto dal popolo a voi totalmente sconosciuto, come ministro dell'Interno Matteo Salvini, e un ministro della Famiglia "tradizionale" forse un po' omofobo, ma pazienza. Poi diremo sì alla Tap, si all'Ilva, valuteremo costi/benefici per decidere sulla Tav e anche sul Ceta ci ragioneremo. Faremo un condono fiscale e uno edilizio. Ed eleggeremo come presidente del Senato una berlusconiana doc.
Per quanto riguarda il tema migranti scordatevi il saggio piano 5 stelle di accordi con i paesi di provenienza, lo smantellamento dei grandi e orribili centri di accoglienza che generano conflitti sociali e disagi per i cittadini. Scordatevi la gestione pubblica dell'accoglienza diffusa, i tempi rapidi per le domande di asilo che consentano di rimpatriare chi non ha diritto ed accogliere con dignità i rifugiati. Toglieremo la gestione di migranti ai Comuni e la affideremo ai privati senza gara di evidenza pubblica raddoppiando i tempi di permanenza da nove a diciotto mesi, favorendo così il business dell'immigrazione. Doneremo 150.000 nuovi clandestini alla criminalità organizzata per il lavoro nero e lo spaccio. Chi invocherà il rispetto del programma 5 stelle rischierà sanzioni e persino di essere espulso per non contrariare l'alleato Salvini".
Mi avrebbero preso per folle o per lo meno mi avrebbero rincorso con torce e forconi. Ma si sa, le rane saltano solo se le butti nell'acqua bollente. Se accendi il fuoco nel pentolone e la temperatura sale piano piano...

giovedì 18 ottobre 2018

La sinistra europea sta morendo: e se lo merita di Aldo Giannuli




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Di fronte al processo di globalizzazione neo liberista la sinistra europea (limitiamoci a questa area) si è divisa in tre aree:

a. la sinistra “riformista” (o, se volete, socialdemocratica) che ha accettato supinamente la rivoluzione neo liberista, non opponendo alcuna resistenza e cercando maldestramente di ritagliarsi uno spazio di sinistra interna al sistema. In questo processo di omologazione, questa sinistra ha cessato di essere socialdemocratica (e lo ha dimostrato accettando la demolizione un pezzo alla volta del welfare) per diventare semplicemente liberale, pur se con vaghissime aspirazioni socialeggianti.
La cosa è andata avanti per un quindicennio, sinché la creazione di denaro bancario ha dato la sensazione di un sostitutivo del welfare state, poi è arrivata la grande crisi e, con essa, la stretta che ha frantumato il ceto medio, spinto sotto la soglia di povertà gran parte delle classi lavoratrici e precarizzato tutta la forza lavoro giovanile. Ed in breve è stato evidente che nell’ordinamento neo liberista non c’è spazio per una sinistra riformista. I vari partiti dell’Internazionale “Socialista”, per salvare il sistema, hanno abbracciato senza fiatare le politiche di austerity che hanno massacrato la loro base sociale che, a lungo andare, li hanno abbandonati riducendoli sotto il 15% (e talvolta sotto il 10%) in Grecia, Austria, Francia Spagna e, fra non molto, Italia.
Il deflusso è andato ad alimentare la rivolta “populista” che accomuna cose molo diverse fra loro. Di fatto, l’unica sinistra possibile in questa fase storica è la sinistra antisistema: se vuoi sostenere decenti politiche sociali, non puoi accettare questo ordinamento e devi predisporti alla battaglia fontale contro l’ipercapitalismo finanziario, magari sperando di poterci arrivare con i mezzi usuali della lotta politica.
b. la seconda area è stata quella semi radicale (Rifondazione Comunista, Linke, Izquierda Unida, Siryza ecc.) che ha ritenuto non ci fossero le forza per una scontro frontale con il sistema ed ha scelto una linea di “guerra di posizione”, cercando di cedere meno terreno possibile e, a questo scopo, ponendosi come “gruppo di pressione” verso la sinistra riformista, con la quale tentare una qualche alleanza.
Schema non meno sbagliato del precedente: in primo luogo perché noi siamo una fase di guerra di movimento, nella quale non ci sono trincee nelle quali resistere. In secondo luogo perché non comprendeva la natura sociale e politica della ex sinistra socialista diventata ormai liberale ed interna al sistema liberista. Il risultato è stato che la sinistra semiradicale non ha fatto alcuna alleanza con quella “riformista” ma ha fatto solo da sgabello ad essa (basti citare l’esperienza del governo Prodi, costata la pelle a Rifondazione Comunista che prosegue in una inutile esistenza senza riuscire neanche a chiedersi dove ha sbagliato e perché). Soprattutto, l’errore bi base è stata la mancata comprensione delle caratteristiche di questo nuovo capitalismo, che, a sua volta ha determinato la totale incomprensione della crisi, verso la quale questa area non ha saputo proporre alcuna politica. E lo dimostra il fatto che la protesta montante ha premiato le nuove formazioni “populiste” e non questa sinistra semi radicale che non interessa nessuno. In Italia è ridotta a brandelli insignificanti, in Spagna e in Germania vivacchia.
Il caso più clamoroso è quello della Grecia, dove la formazione semi radicale è giunta al governo, promettendo il superamento dell’austerity salvo vendersi anima e corpo ed eseguire fedelmente i diktat della Troika, per non aver avuto il coraggio di andare allo scontro. E la conseguenza di questa disfatta morale prima ancora che politica è stata l’infelice esperienza della lista Tsipras varata in Italia, della cui esistenza non abbiamo avuto modo di accorgerci in questi quasi cinque anni per la totale assenza di ogni iniziativa.
c. la terza area è stata quella che definiamo “sinistra radicale” (centri sociali, gruppuscoli di radice maoista o trotskjista, vecchi Pc come quello portoghese o quello greco, pezzi di sindacato ecc.) che hanno assunto una posizione dichiaratamente antisistema, ma, haimè, puramente verbale e declamatoria. Non sono mancati sporadici movimenti di protesta, rivendicativi o territoriali (vedi il movimento No Tav o singole ondate di protesta salariale in Francia ecc.) ma tutto questo non fa una politica. E’ la riproposizione del vecchio “basismo” sessantottino, tentativo generoso ma votato alla sconfitta. Ed anche questa area, come la precedente, deve chiedersi perché la protesta ha premiato i “populisti” e non ha riversato neppure un rivolo di consensi in questa direzione.
Di fatto questa area non si dimostra in grado di uscire da un disperato minoritarismo e di darsi una cultura politica degna di questo nome.
Tutte tre queste aree pagano il prezzo di aver cessato qualsivoglia lavoro teorico: ma senza teoria non c’è cultura politica e, senza cultura, non c’è né analisi né progetto. I “riformisti” hanno sostituito il pensiero politico con le serate nei salotti della finanza o frequentando i Think Tank del potere (come l’Aspen, la Trilateral o i loro più modesti succedanei nazionali). La sinistra semi radicale si occupa solo di formazione di liste, di organigrammi e di distribuzione delle sempre più magre risorse. La sinistra radicale ha conati in questo senso ma che si spengono subito per l’incapacità di interloquire con chi non faccia parte della ristrettissima cerchia di ciascun gruppo.
Qualche novità positiva non manca: Corbyn in Inghilterra, Melenchon in Francia ad esempio, ma speriamo non rifacciano gli errori di chi li ha preceduti. Ne riparleremo, per ora le espressioni conosciute della sinistra, chi per un motivo e chi per un altro, possono tranquillamente dichiarare bancarotta.

A loro insaputa


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        La “manina” che strozza l’accordo Lega-M5S
                            di Alessandro Avvisato   

Che il governo a tre presentasse problemi di tenuta fin dall’inizio, ci era abbastanza chiaro. Mettere insieme blocchi di interessi sociali diversi (Lega e M5S), entrambi posti sotto tutele contabile da parte dell’Unione Europea (Tria, Mattarella, Moavero Milanesi), significava disporsi a camminare sul filo mentre soffia tramontana.


Però che il bubbone sarebbe esploso così presto, effettivamente, era un po’ difficile da prevedere, anche per il più speranzoso dei “gufi”.
Ieri sera il vicepremier e ministro Luigi Di Maio ha utilizzato il megafono tardo-democristiano di Bruno Vespa per buttare lì una bomba politica di prima grandezza: «Non è possibile che vada al Quirinale un testo manipolato» che riguarda la pace fiscale. «Domani sarà depositata una denuncia alla procura della Repubblica».
Stiamo parlando della più importante legge dello Stato – quella di “stabilità”, che regola entrate e uscite per il prossimo anno – su cui già ora la Commissione Europea ha anticipato il veto, aprendo quindi un contenzioso dalle incerte conseguenze (è la prima volta che accade, nella Ue). Una legge che, garantisce il Quirinale, non è neppure ancora arrivata sul tavolo del presidente della Repubblica, come se in due giorni il “camminatore” non fosse riuscito a coprire i 500 metri che separano Palazzo Chigi dal Colle. Una legge che – una volta approvata dal Consiglio dei ministri – nessuno può azzardarsi a modificare senza aprire un confronto politico nel governo.
I problemi sono parecchi, ma di due tipi, fondamentalmente.
Il merito della “manipolazione”. Su questo Di Maio è stato chiaro. «Nel testo che è arrivato al Quirinale c’è lo scudo fiscale per i capitali all’estero. E c’è la non punibilità per chi evade. Noi non scudiamo capitali di corrotti e di mafiosi. E non era questo il testo uscito dal Cdm. Io questo testo non lo firmo e non andrà al Parlamento. Questo è un condono fiscale come quello che faceva Renzi, io questo non lo faccio votare. Non abbiamo mai chiesto né parlato di scudare capitali all’estero e tanto meno di prevedere l’impunità per gli evasori. Non abbiamo mai discusso di questi temi e soprattutto mai pensato a dare l’impunità per il reato di riciclaggio».
Si tratta di temi contro cui i Cinque Stelle hanno costruito gran parte della loro fortuna politica, quindi impossibili da avallare senza perdere automaticamente l’aura di “onestà” che li ha portati a diventare il primo partito nel paese.
La “manina” che avrebbe apportato le modifiche è certamente competente, sia in in materia economico-legale, sia in equilibri politici.
Secondo la denuncia (solo politica, per ora) di Di Maio la possibilità di “pace fiscale” (pagando il 20% del dovuto, senza sanzioni e interessi) sarebbe stata in modo fraudolento estesa a due imposte che riguardano proprietà e attività fiscali extra-confine (Ivie e Ivafe), che riguardano gli immobili all’estero e l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero. Insomma, una specie di “scudo fiscale” per i capitali oltre confine.
Proprio come quello varato a suo tempo – con dettagli leggermente diversi – da Berlusconi-Tremonti, Renzi-Padoan, ecc. Come “governo del cambiamento” non c’è male…
In questi ultimi anni, quelli renziani, si chiamava voluntary disclosure, anzi è ora persino più benevola (la vecchia voluntary prevedeva il pagamento di tutto il dovuto, mentre ora gli evasori pagherebbero solo il 20%; bello sconto, vero?).
Ma c’è ovviamente di peggio, visto che la stessa “manina avrebbe” autorizzato anche uno scudo penale per chi presenterà la dichiarazione integrativa. Se, come c’è scritto nel testo “taroccato”, non c’è punibilità per “dichiarazione infedele, omesso versamento di ritenute e omesso versamento di Iva”, questa “facilitazione” varrebbe automaticamente anche in caso di riciclaggio o impiego di proventi illeciti. Un po’ troppo sfacciati, dài…
Altri argomenti spinosi già non mancavano, visto che la formula usata per delimitare la sanatoria di fatto esclude gli “evasori per necessità” (di cui si riempiono la bocca tutti i leghisti ospitati nei talk show), mentre ci rientrerebbero gli evasori totali, quelli che non vogliono pagare nemmeno davanti a una pistola puntata. Lo sconto sulle imposte si applica infatti sul “maggior reddito dichiarato” (nascosto al fisco), ma non a chi ha dichiarato tutto e poi non ha versato le imposte perché non aveva i soldi.
Il secondo ordine di problemi è tutto politico, invece.
Se c’è stata davvero una “manina” competente che ha provato a far passare condoni non concordati tra i “tre governi in uno”, si tratta di scoprire a chi appartiene. Non è una indagine complessa, perché può essere stato solo un ministro o un vice, o il sottosegretario alla presidenza del consiglio (il leghista Giorgetti).
Se invece era già tutto scritto così come si legge oggi, allora i ministri grillini – e tutto il loro staff, Giuseppe Conte compreso – semplicemente non avevano capito che cosa stavano elaborando di concerto con la Lega e Tria.
In entrambi i casi, però, questo governo sta insieme con lo sputo. Perché nel primo caso i leghisti sarebbero i nuovi berlusconiani, interessati soprattutto a fare gli interessi delle imprese, qualsiasi cosa facciano (evasione fiscale compresa); disposti a tutto, anche a taroccare la prima legge dello Stato infilandoci nottetempo frasi opportunamente scelte. Nel secondo, perché i grillini sarebbero degli incompetenti totali che poi buttano per aria il tavolo quando si accorgono di essere stati presi per il naso.
Sia chiaro. Queste cose accadono nella normale dialettica politica di qualsiasi governo in qualsiasi paese, ma hanno altrove un esito obbligato: lo scioglimento dell’alleanza di governo e la formazione di uno nuovo, oppure elezioni anticipate. L’unica alternativa in mano al ministro o partito che si ritiene truffato è infatti una sola: tacere e dunque cercare di rifarsi in un’altra occasione (a parti invertite), oppure denunciare davvero tutto e far saltare l’alleanza.
L’unica cosa che non si può fare è proprio quella provata fin qui da Di Maio: denunciare e continuare ad andare avanti come prima.
Ci sembra perciò altamente utile il sarcasmo del commento di Giorgio Cremaschi alla vicenda.
E ADESSO POVER'UOMO? di Giorgio Cremaschi 

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Questa davvero è un cambiamento, robe così non risultano agli archivi. Di Maio annuncia che denuncerà alla Procura della Repubblica la manipolazione del suo decreto fiscale del suo governo. Egli stesso ammette che quel testo contiene uno scandaloso condono, e anche una salvaguardia sul piano penale, per chi ha riciclato all’estero capitali sporchi. Mafie, corruttori e corrotti vari ringraziano.
Di Maio annuncia solennemente in TV che tutto questo è avvenuto a sua insaputa e che per questo andrà dal giudice. Ma chi denuncerà il vice presidente del consiglio? Salvini che conferma integralmente il provvedimento? Conte che come al solito non sa nulla? Tria che complotta nel buio? Castelli che non ha controllato i testi? O sé stesso per manifesta incapacità? Non lo sa Di Maio cosa approva? Non ha dei collaboratori che leggano i testi per lui? Non lo sa, il pover’uomo, che condono chiama condono? Che questa sanatoria sempre più vergognosa non riguarda solo l’evasione fiscale, ma anche quella dell’IVA e dei contributi previdenziali?
E siccome il testo non è ancora pubblico, finora neppure è arrivato al Quirinale, chissà quante altre porcherie contiene, come il decreto Genova nel quale una manina a cinquestelle – così dichiara Salvini – ha inserito la sanatoria per le case abusive di Ischia.
Che scambio di gelide manine tra Di Maio e Salvini: io metto una cosa a te, tu metti una cosa a me.
Ora però Di Maio annuncia, il che vuol dire che non è proprio detto che lo faccia, una denuncia in Procura.
Pover’uomo o ci fa o ci è, se fosse un concorrente de La Corrida a questo punto sarebbe travolto dai campanacci, ma come vicecapo del governo gode ancora del residuo credito che gli deriva dal discredito dei suoi predecessori. Di Maio deve tutto a Renzi, che come lui aveva inizialmente maturato un grande consenso, ma questa eredità si sta consumando rapidamente.
A sua insaputa.

mercoledì 26 settembre 2018

Ponte Morandi, il governo ha fatto propaganda sulla pelle di Genova? fi Ferruccio Sansa, Il Fattoquotidiano

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Ma che cosa c’era scritto su quei fogli che Giuseppe Conte ha sventolato davanti a diecimila genovesi il 14 settembre?
Sono passati 42 giorni dalla tragedia del ponte e soltanto adesso, forse, arriva il decreto.
Sono passati 42 giorni e non c’è ancora un commissario, anzi, abbiamo dovuto assistere a penose dispute tra i partiti di maggioranza per la scelta del nome.
Sono passati 42 giorni e il ponte non è stato demolito, né si sa chi e quando lo farà.
Sono passati 42 giorni e non si ha la minima idea di quale progetto sarà scelto. Non è stata nemmeno immaginato un concorso (come sarebbe auspicabile), ma si litiga tra il progetto di Renzo Piano e quello proposto da un ingegnere. Sì, quello che immagina di fare bungee jumping da un ponte dove sono precipitate 43 persone!
E intanto Genova muore. Il porto che soffoca, la gente che impiega ore per spostarsi da una parte all’altra della città. I ragazzi che non riescono ad andare a scuola, gli adulti che non sanno come raggiungere il lavoro, gli anziani sempre più soli. Una città divisa, strappata, che muore.
Ma il punto è anche un altro: il governo ha mentito a Genova?
Torna in mente Luigi Di Maio che il giorno dei funerali, a pochi metri dalle bare, sparava a zero su Autostrade in una specie di comizietto. Accanto a lui Matteo Salvini che, mentre ancora i parenti erano accanto ai feretri, si faceva i selfie con i fan. Solidarietà maldestra o propaganda in un giorno di lutto?
E poi promesse buttate lì, in una città spaesata, confusa. Con un disperato bisogno di aggrapparsi a qualcuno.
Le ha messe in fila ieri Il Secolo XIX: “Presto un commissario”, dice Di Maio il 14 agosto. “Cominceremo la demolizione del ponte a inizio settembre”, promette la Lega a fine agosto. Ancora Di Maio il 10 settembre: “Entro la fine della settimana o all’inizio della prossima il governo approverà il decreto”. Poi Danilo Toninelli il 12 settembre: “Decreto Genova in consiglio dei ministri forse domani. Conterrà la nomina del commissario”. Sempre Toninelli in visita agli sfollati il 20: “Ho il decreto in mano, immagino che nelle prossime ore sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale”.
Giudicate voi se fosse la verità o se sia stata propaganda. Ma soprattutto c’è Conte che, almeno sulla carta, guida il governo. Il 14 settembre si presenta in piazza De Ferrari a Genova per la cerimonia di commemorazione della tragedia. Si ricordano le vittime. La gente piange. E Conte, con un intervento che molti giudicano stonato, sventola quei fogli. Parla con pause sapienti richiamando applausi. Durante una commemorazione per i morti, Conte fa un intervento politico. Ma soprattutto annuncia il decreto, lo mostra. Il 25 settembre, però, noi genovesi eravamo ancora lì ad attendere il decreto. Si dubita che ci siano le coperture, non si sa cosa abbiano votato i ministri.
Giudicate allora voi: Conte ha detto il vero alla gente di Genova? È stato sincero con una città in ginocchio? Già, in fondo la domanda dopo 42 giorni di promesse e comizi è questa: il governo è stato leale con Genova o ha fatto propaganda dopo una tragedia?

lunedì 24 settembre 2018

Piazza e Statuto. L’opinione di Dino Greco *



Nel suo contributo alla discussione sullo statuto di Pap, Ilaria Boriburini, del coordinamento nazionale, ha giudicato impraticabile la possibilità di pervenire ad un’unica proposta per due fondamentali ragioni: le visioni “molto diverse” che stanno alla base delle ipotesi in campo e la necessità di non perdere tempo, considerate le tante cose che dobbiamo fare.
Ora, che i due testi propongano differenze importanti è evidente e non sarebbe giusto banalizzarle, visto che non stiamo parlando di tecnicalità o di mere soluzioni organizzative, ma della forma della democrazia su cui incardinare il movimento.
Lo statuto è sotto ogni aspetto la casa comune di tutti e di tutte, dunque la ricerca tesa a sciogliere i nodi e non a tagliarli con una rasoiata dovrebbe essere ritenuto un vincolo irrinunciabile, tenendo conto del carattere plurale e composito del movimento e della volontà da tutti espressa con enfasi di costruire un progetto inclusivo, fondato su un’estesa pratica democratica e sul criterio della decisione condivisa.
Viola Carofalo ha ragione quando dice che “non sarà possibile fare uno statuto che piaccia a tutti al cento per cento”, ma risolvere il problema con un referendum significa che a chiudere la partita con una scelta oggettivamente divisiva basterà il 50%+1.
La ricerca della decisione condivisa, se la formula non è solo un espediente retorico, deve essere sostenuta da una regola che la faccia vivere, e quella della maggioranza qualificata, dei 2/3 almeno, lo consente. L’altra no, perché spinge a tagliare corto.
Se la ricerca del consenso, diciamo pure: della mediazione, viene interpretata come la ricaduta in vecchie pastoie paralizzanti che impediscono di librarsi nei cieli del nuovo, si rischia di perdere pezzi per strada, uno dopo l’altro.
Nel coordinamento nazionale ho sempre sostenuto, mi era parso senza incontrare obiezioni, che il metodo della condivisione dovesse consistere nel suscitare la massima discussione possibile ad ogni livello e su ogni argomento, e nel mettere a fattor comune tutto ciò che unisce, presentandolo nello spazio pubblico come Potere al Popolo e che quanto invece non appartiene all’elaborazione condivisa fosse lasciato all’autonoma iniziativa dei soggetti collettivi che hanno tutto il diritto di agire in proprio. Poi ho sempre pensato che l’abitudine a lavorare insieme, senza pregiudizi, favorisca processi di ibridazione fra culture diverse, processi che hanno bisogno di tempo, non di scorciatoie.
Ilaria sostiene che si sarebbe sì potuto procedere con un unico testo con emendamenti sui singoli punti ma, aggiunge, “in fase di votazione sarebbe stato un delirio”.
Ma perché sarebbe stato “un delirio”? Esattamente perché il voto è gestito attraverso la piattaforma on line, dove, per definizione, trionfa l’espressione in forma binaria: a o b, sì o no. Nessuno scampo per l’approfondimento, per la dialettica reale: o di qui o di là.
Alla pedagogia della partecipazione si sostituisce il gesto risolutivo del click a distanza.
A mio avviso, questo è un limite, grave, di entrambe le proposte di statuto che accettano, o subiscono, l’infatuazione per la dimensione puramente virtuale del coinvolgimento personale, dove il campo si divide fra chi fa e chi, guardando, si limita a giudicare sommariamente chi fa.
Ilaria chiede a tutti noi “di usare energie e capacità a riflettere su come migliorare uno statuto o l’altro, oppure di presentarne uno totalmente nuovo se nessuno dei due rappresenta a grandi linee la vostra visione”. Condivido senza riserve questa indicazione. Osservo, semmai, che contrasta piuttosto ruvidamente con la sottolineatura che tutti i tentativi sono già stati fatti, mentre tutte le sirene invitano a chiudere presto il conto, piuttosto che a dispiegare intelligenza e creatività.
A Brescia ci siamo sforzati di mettere in pratica questo suggerimento, proponendo, fra molte altre cose, che non tutte le decisioni, ma senz’altro quelle politicamente rilevanti siano assunte a maggioranza qualificata nelle assemblee costituite ad ogni livello del movimento. E come si stabilisce se una questione è “politicamente rilevante”? Si può prevedere che lo è se ritenuta tale dal 10% delle assemblee territoriali, da quella nazionale o del coordinamento. Tutelare le minoranze non è un ubbìa democraticista, ma uno dei tratti distintivi della democrazia.

Da Macron a Tsipras? No grazie di Marco Revelli


Da Macron a Tsipras? No grazie


“…Una grande alleanza da Macron a Tsipras”, invoca Maurizio Martina, a margine del vertice dei leaders del Pse a Strasburgo, “per battere l’asse Orban, Salvini, Le Pen che vuole distruggere l’Europa”.  La stessa formula l’aveva già spesa, il giorno prima, sul “Dubbio” (non è uno scherzo!) Gianni Pittella, per lungo tempo capogruppo del Pse al Parlamento Europeo e ora senatore Pd, invocando “una grande lista con sopra scritto Pse che si presenti alle Europee e che unisca da Macron a Tsipras”. E persino Matteo Renzi si era lasciato andare con Barbara Palombelli, su Rete 4, col suo solito tono, a preconizzare che “le elezioni Europee le vincerà un fronte da Macron a Tsipras”. Nel marasma che caratterizza il collasso psichico del Partito democratico è questo il mantra che rimbalza di bocca in bocca.  
Così, d’istinto, senza stare tanto a pensarci su, sarei tentato di rispondere come lo scrivano di Melville: “Preferirei di no”. Ma poi, dopo più matura riflessione, devo confessare che risponderei nello stesso modo. Terrei ben ferma la mantrica risposta di Bartelmy, persino rafforzata nel suo carattere “a-grammaticale” dalla versione scelta per la traduzione italiana da Gianni Celati: “Avrei preferenza di no“.
E questo per vari, ragionati motivi.
Il primo motivo è di carattere rozzamente e sanguignamente personale, anzi personalistico (d’altra parte non sono forse tutti gl’ invocatori corali della Santa Alleanza, impenitenti fautori della personalizzazione in politica?): fa un po’ disgusto e un po’ rabbia vedere tra gli evocatori del nome di Tsipras quelli che tre anni fa – in occasione dell’ ordalia del 14 luglio 2015  – non esitarono nemmeno un istante a sacrificarlo, senza fare una piega,  pur di restare sul carro dei vincitori (e dei creditori) che stavano umiliando la Grecia per ammonire tutti gli altri a non seguirne la via della dignità. Lo ricordiamo tutti Matteo Renzi, saltellare come un tacchino intorno alla Merkel ostentando- come lo studente secchione con la maestra severa – il proprio zelo a differenza del reprobo dell’ultimo banco… Li ricordiamo i sorrisetti sarcastici di Martin Schultz – allora presidente del parlamento europeo – all’indirizzo del Capo del governo greco messo sotto dai falchi nordici e dal perfido Schauble; o l’anatema lanciato da Sigmar Gabriel, allora presidente dell’Spd e vice- cancelliere tedesco, subito dopo il referendum greco, quando disse che così “Tsipras aveva tagliato i ponti con l’Europa” e si schierò con l’ala dura del feroce bavarese che voleva appunto la Grexit! Allo stesso modo abbiamo ancora negli occhi la solitudine di Alexis Tsipras di fronte a quel Parlamento di Bruxelles gelido, con il fronte del nord, Alda e Ppe a ranghi serrati, dichiaratamente ostile e le socialdemocrazie europee, tutte, prone e allineate e coperte in nome di un’austerità austera solo con i poveri e prodiga con i ricchi…
Il che ci porta al secondo dei “ragionati motivi”. Non più “personale”, questo, ma di natura “generale”. Attinente non alle colpe individuali ma alle identità collettive (supposto che oggi qualcuno o qualcosa possa vantare una qualche identità). A quelle che un tempo si chiamavano “culture politiche” (anche se oggi solo un eufemismo potrebbe giustificare l’accostamento dei termini politica e cultura). Perché mai “famiglie politiche” che hanno dimostrato al di fuori di ogni ragionevole dubbio la propria identificazione con un modello sociale ed economico devastante per ogni possibile forma di “società giusta”  e incompatibile con ogni possibile accezione del termine “giustizia sociale”, dovrebbero essere un valido antidoto alla deriva “populista” in corso? A un imbarbarimento politico e culturale  che affonda le proprie radici nella disgregazione sociale e nel degrado prodotto dalle politiche messe in atto da quegli stessi “soggetti ” che oggi vorrebbero chiamare alla “resistenza”?
L’ha detto come meglio non si può Tomaso Montanari, quando liquidando l’idea nata in area Pd di un “fronte repubblicano” anti giallo-verde, ha ricordato che “la miccia non può diventare l’opposizione alla bomba”. Esattamente come non lo può essere la causa rispetto all’effetto. E la radice all’albero! L’attuale onda nera che minaccia di spazzare l’Europa è il prodotto diretto di un quarto di secolo di politiche a-sociaii e anti-sociali, che hanno frantumato le società, atomizzato gli aggregati collettivi, indebolito fino all’estenuazione le organizzazioni di rappresentanza del lavoro (i sindacati), abbattuto potere d’acquisto dei salari e diritti del lavoro, accresciuto le diseguaglianze e fatto esplodere le solitudini, prodotto rancore, frustrazione, aggressività, competizione molecolare. Perché mai gli autori di quelle politiche (liberali e social-democratici, fino a ieri alleati ai popolari a baricentro tedesco) dovrebbero essere un argine contro le minacce che da quelle società devastate salgono? Con quale legittimità potrebbero pretendere un mandato popolare a “resistere”? Con quale credibilità potrebbero immaginare di ottenere un consenso di massa?
Il neo-liberismo che ha strutturato l’ordine europeo del nuovo secolo nella forma hard dell’”ordo-liberismo” tedesco – è questo il terzo “ragionato motivo” o, meglio, “ragionamento motivante” del NO – si è rivelato, nell’atto del suo pieno compimento, come una gigantesca macchina di riproduzione su scala allargata di sentimenti e comportamenti “populisti”. Ha generato non solo le condizioni materiali della sindrome populista (il senso di impoverimento, espropriazione, perdita di status che ha pervaso la sfera esistenziale di gran parte del ceto medio declassato e le conseguenti pulsioni di rivincita e di vendetta), ma anche i presupposti mentali, i fondamenti antropologico-culturali, con l’assolutizzazione dell’homo oeconomicus, iper-competitivo e iper-egoistico, l’uomo autarchico incapace di condivisione se non sulla base di un nudo calcolo di utilità o – non necessariamente in antitesi con quello – di un delirio di potenza nella forma del nazionalismo o del sovranismo. Il populismo che viene contemporaneamente dall’estremo occidente atlantico (trumpismo) e dall’estremo est-europeo (Visegrad) non è l’antitesi di quel paradigma a lungo egemone, ne è il figlio legittimo ancorché ripudiato. Non risulta che né Macron, né gli acciaccati dirigenti del Partito socialista europeo, ma nemmeno i Verdi, abbiano rielaborato uno straccio di critica e di auto-critica rispetto a quell’allucinazione che ne ha condizionato per almeno un paio di decenni la linea politica e la visione sociale. Nemmeno nel momento dell’appello disperato sulla patria (europea) in pericolo, filtra un barlume di dubbio. Un cenno di resipiscenza. Quello continua a rimanere l’unico mondo possibile: la loro resta, incontrastata e incontrastabile, una “narrazione dell’ inevitabilità” (inevitabilità del rigore di bilancio, dell’interdetto agli “aiuti di stato”, del controllo dei flussi senza se e senza ma, della povertà concepita come colpa e l’assistenza come azzardo morale, del primato dell’impresa sul lavoro e del denaro sulla vita…).
D’altra parte è stato lo stesso Tsipras a chiarire la propria collocazione nel quadro del contrasto su scala europea all’onda nera del populismo di destra radicale. In un intervento tenuto nel corso della riunione preparatoria dell’assemblea del Pse a Salisburgo, in Austria, non ha certo negato il pericolo e il più che giustificato allarme per la crescita del fronte che vede convergere Orban, Salvini, Le Pen  e in generale un populismo d’impronta nazionalista e sovranista che minaccia l’Europa nei suoi fondamenti primi, ma ha tracciato anche precise linee di demarcazione, che impediscono una meccanica identificazione con le politiche finora praticate dai socialisti europei: in particolare la necessità di una netta, non equivoca demarcazione da quelle destre  non populiste, conservatrici e reazionarie, che hanno assunto tuttavia nella propria piattaforma posizioni da destra radicale soprattutto in tema di migranti; e una altrettanto esplicita volontà di opposizione al liberismo. Massima convergenza, dunque, contro un fascismo risorgente, la sua xenofobia, il suo razzismo e la sua intolleranza, ma nessuna identificazione con posizioni che rimangano nell’ambiguità sulle questioni dell’austerità e del neoliberismo che “l’alimentano”.
Tsipras è stato considerato a lungo un reietto dalle grandi famiglie politiche europee, socialdemocratici e liberali in testa, finché la Grecia sembrava annaspare sul pelo dell’acqua. Ora che ha vinto la propria battaglia, che il Paese dato per morto è uscito dal Memorandum e dal commissariamento della troika, diventa un ospite gradito, anzi desiderato. Addirittura quello che potrebbe rianimare le esauste energie di una socialdemocrazia in declino se non in bancarotta. E’ un buon segnale per la Grecia, riconosciuta nei suoi meriti. Non è detto che sia un invito allettante. O promettente. La crisi delle sinistre riformiste europee è così grave, il loro bagaglio di promesse non mantenute, di fallimenti e di abbandoni dei propri rispettivi popoli così logorante, che non basterà un ritocco con fotoshop alla fotografia di famiglia, o un party elettorale con un ospite d’onore in più (anche se molto onorevole) a risollevarne le sorti. E’ piuttosto possibile che con la sua zavorra tiri giù anche la parte sana della sinistra europea. Un naufragio elettorale di un fronte tanto ampio quanto generico e ambiguo sarebbe letale, e aprirebbe la strada, quello sì, a un dominio della destra senza opposizioni.
A pochi mesi dalle elezioni che potrebbero cambiare la geografia politica del  Parlamento Europeo,  le chiacchiere e gli slogans così cari alla nostra sinistra sbandata stanno a zero. Servono idee e atti non equivoci, di cui dai menu delle cene mancate e dai tweet dei leader imbolsiti non si vede traccia. Altrimenti al chiacchiericcio insensato che viene dal Palazzo non può che rispondere la reiterazione infinita del “copista” di Melville, con la sua potenza disarticolante di ogni linguaggio estenuato. O meglio – come ha scritto Derrida – con la sua capacità di “far oscillare il linguaggio nel silenzio”.

venerdì 21 settembre 2018

Potere al Popolo. “Una occasione da non perdere, anzi, da alimentare giorno dopo giorno” di Fabrizio Tomaselli


Lettera aperta ai dirigenti di Rifondazione Comunista
Care compagne e cari compagni,
chi mi conosce sa che sono stato iscritto e militante di Democrazia Proletaria prima e del PRC dalla sua nascita e sino al 2007. Sa che il mio impegno si è sviluppato soprattutto nell’attività sindacale dove ho contribuito, insieme a tante e tanti compagni a far nascere e sviluppare il sindacalismo alternativo, indipendente e di base in questo paese, sino alla realizzazione di quello che considero il passaggio più avanzato verso il sindacalismo di classe, cioè l’Unione Sindacale di Base.
Non ho preso più tessere di partito e ho partecipato alla costruzione di quella piattaforma politica rappresentata da Eurostop. Qualche giorno fa mi sono iscritto a Potere al Popolo.
Speravo, credevo e auspicavo nella nascita di un soggetto politico che superasse le incrostazioni del passato e che saldasse le esperienze positive della sinistra radicale con quelle nuove e più ampie ed articolate esperienze, sia quelle organizzate che quelle non strutturate che si stanno affermando da almeno un decennio.
Speravo e spero ancora che questa sintesi faccia tesoro degli errori del passato che tutti abbiamo commesso e che finalmente si apra una fase nuova, più rispondente alle esigenze emergenti da quel blocco sociale che tutti vorremmo rappresentare e che invece spesso fugge e si ciba delle risposte di costruttori di facili consensi e di pessimi e falsi obiettivi.
Questo percorso di costruzione pretende una “cessione di sovranità” non a quel gruppo o a quel movimento o a quel partito, ma ad un obiettivo preciso: la ripresa del conflitto sociale e politico, condizione senza la quale è assurdo e velleitario pensare di dare voce, diritti e risposte a bisogni concreti a chi li ha persi in decenni di oscurantismo, di liberismo, di ingiustizie sociali, di austerità, di capitalismo più o meno feroce e, non dimentichiamolo, di nostri errori.
Sono quindi convinto che la costruzione di Potere al Popolo sia veramente un’occasione da non perdere, da coltivare, da sviluppare, da alimentare giorno dopo giorno. Questo è il compito di chi ha responsabilità nella gestione delle organizzazioni che hanno aderito ad un progetto che non può certo essere chiamato un partito, ma neanche un treno sul quale salire o scendere a proprio piacimento o in base alle fasi elettorali.
Sono convinto che una eventuale e sciagurata rottura determinata dal PRC all’interno di Potere al Popolo o anche il solo obiettivo di conquistare al suo interno una egemonia politica tutta costruita sul contingente, sul dato elettorale e su quelle lotte di potere che così tanto hanno fatto male all’esperienza della sinistra radicale negli ultimi decenni, rappresenterebbe la fine di Rifondazione e un grave rallentamento nella costruzione del progetto di Potere al Popolo.
Credo quindi che oggi ci sia l’estrema necessità di un forte spirito di servizio e di partecipazione, piuttosto che muri da alzare a difesa della propria storia, della propria sigla o del proprio simbolo.
Così io vivo la nascita di Potere al Popolo e credo che le migliaia e migliaia di militanti, di compagne e compagni che si sono ritrovati dopo esperienze diverse vissute nei passati decenni, debbano mettersi al servizio di quello spirito nuovo, fresco ed entusiasta che si respira nelle assemblee di PAP e che è frutto soprattutto di coloro che quelle nostre “vecchie” esperienze non hanno vissuto.
Un passo indietro non sarebbe interpretato come una vostra sconfitta. Al contrario, rappresenterebbe invece proprio ciò che serve per saldare vecchie e nuove esperienze e costruire ciò che è necessario ora e subito per invertire quella tendenza della sinistra, ormai storica, al frazionismo, alla lite interna, alla cura spesso paranoica del particolare, ai personalismi, alla mancanza di prospettiva che ha marginalizzato qualsiasi ipotesi di alternativa sociale e politica negli ultimi decenni.
Io voterò la proposta n° 1 dello Statuto perché sono convinto che sia più rispondente a ciò che ritengo necessario in questa fase e soprattutto sia più adeguata allo spirito di costruzione di un nuovo soggetto politico. Quello che ho scritto va però oltre il semplice voto su un’ipotesi o l’altra di statuto. Ciò che più conta è la volontà o meno di rimanere chiusi nel proprio fortino o invece aprirsi e contribuire alla costruzione e alla realizzazione di un nuovo percorso che cominci a dare risposte oltre che ad indicare obiettivi. Sono convinto che è questo ciò che vogliono anche migliaia di iscritte ed iscritti a Rifondazione Comunista: sarebbe imperdonabile far finta di nulla.

sabato 8 settembre 2018

Elezioni europee. Rompiamo il falso schema “europeisti versus nazionalisti” di Dante Barontini


L’orizzonte delle europee e la crisi della governance Ue
Non siamo degli appassionati del rito elettorale, ma per la prima volta la scadenza di solito più inutile – le elezioni europee – assume un valore strategico.
E’ quasi sorprendente, visto che tutta la costruzione dell’Unione Europea è stata pensata per congelare dentro trattati di fatto non modificabili (se non all’unanimità, ossia mai) rapporti di forza temporanei e indirizzi di governance in grado di vanificare eventuali risultati elettorali divergenti in qualche singolo paese.
Come spiegava il cerbero Wolfgang Schaeuble in una riunione dell’Eurogruppo, “non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19 e, se ogni volta che c’è una elezione, cambia qualcosa i contratti tra noi non significherebbero nulla”.
Tutta la costruzione, però, poggiava su una maggioranza politica che sembrava eterna: la grosse koalition su scala continentale tra “popolari” e “socialisti”. Ancora nel 2009 questa coalizione sfiorava i due terzi dei seggi a Strasburgo e quindi garantiva che qualsiasi scelta fatta nella formazione della Commissione (il “governo” europeo, quello che fa le leggi e le “raccomandazioni”, che controlla/contratta la stesura delle “leggi di stabilità” nazionali, ecc), o nel Consiglio Europeo, venisse approvata senza problemi.
I primi scricchiolii sono stati avvertiti già nel 2015, quando la maggioranza è scesa al 54%, mentre cresceva l’opposizione di destra che andava al governo in alcuni paesi, ed ora è diventata un protagonista problematico in quasi tutti. Esisteva anche un’opposizione di sinistra, molto variegata quanto ad orientamenti, ma politicamente ininfluente o subordinata ai “socialisti”.
Il crollo di questa coalizione in Italia (dove le filiali locali Forza Italia e Pd, come si vede meglio ora, hanno praticato per 25 anni la stessa identica politica: privatizzazioni, distruzione dei diritti del lavoro, tagli alle pensioni, precarizzazione, ecc, come “raccomandato” dalla Ue), e l’uscita della Gran Bretagna dal prossimo Parlamento, rendono ora “contendibile” la maggioranza.
L’allarme è stato fatto squillare nelle redazioni mainstream e nelle direzioni dei partiti politici “europeisti”, con la scontata chiamata a raccolta di tutte le forze “liberali ed europeiste” contro quelle “reazionarie e sovraniste”.
Le trappole di questo linguaggio sono innumerevoli – e ce ne occuperemo quanto prima – ma il ragionamento politico è semplicissimo: bisogna a tutti i costi mantenere a Strasburgo una maggioranza favorevole allo statu quo. Anche a costo di tirar fuori dall’armadio un frasario “antifascista” che era stato dimenticato da almeno un ventennio (per non disturbare membri del “partito popolare europeo” come l’ungherese Orbàn o gli alleati nazisti al governo in Ucraina, oltre ai segnali di “dialogo” con i fascisti all’interno di ogni paese; qui da noi i noti Veltroni, Violante, ecc), almeno quanto basta per facilitare l’accodamento di una parte della “sinistra”.
Lo schema descritto dalla narrazione è dunque classicamente bipolare – europeisti versus sovranisti – senza ammettere altri protagonisti. Lo si può vedere dalla cartina allestita dal Corriere della Sera, che in Francia neanche menziona France Insoumise di Jean-Luc Mélénchon (19,6% alle recenti presidenziali, e in crescita nei sondaggi), mentre continua a considerare rilevante il Partito Socialista (dato nei sondaggi ancora all’8%, ma in rapidissimo calo); oppure, in Germania, cancella Die Linke (che pure vanta un dignitoso 9,2% alle elezioni politiche di un anno fa), mentre enfatizza al massimo i razzisti dell’Afd (che avevano preso il 7%, ma crescono cavalcando la paura anti-immigrati).
Dal punto di vista delle classi sociali, questi due schieramenti corrispondono al grande capitale finanziario e multinazionale (“europeista” e “cosmopolita” per definizione) e alla piccola-media borghesia, nazionalista per insufficiente dimensione del capitale, dunque incapace di “competere” sul piano globale.
Per il nostro “blocco sociale” – lavoratori con qualsiasi tipo di contratto, pensionati, disoccupati, precari, studenti, migranti, poveri di tutte le etnie, ecc – non è prevista alcuna rappresentanza né diritto di parola. Al massimo, nella prospettiva dell’establishment neoliberista, viene auspicata una sua partecipazione, silenziosa e subordinatissima, al blocco “europeista”, usando lo spauracchio del fascismo alle porte e ramazzando frazioni della scompaginata “sinistra”.
Sul fronte interno il più chiaro nell’esplicitare questa partizione è stato Massimo Cacciari: Per le elezioni del 2019 ci vuole un progetto transnazionale che vada da Macron a Tsipras e possa sfidare i sovranisti. E lo faranno, non c’è alcun dubbio, perché ne va della loro sopravvivenza politica.
Che il fronte cosiddetto “sovranista” – in realtà banalmente nazionalista e retrogrado – sia una destra pericolosa e violenta, è assolutamente vero. E’ una destra che cavalca l’impoverimento generale (dai “ceti medi” a quelli popolari) causato dalla crisi economica fin dal 2008, aggravato da “politiche di austerità” pro-cicliche, a malapena rabberciate con il quantitative easing della Bce, ora agli sgoccioli.
Ma non è una destra realmente “anti-europeista”, ossia determinata a scassare la governance inscritta nei trattati. Sul piano economico, infatti, è altrettanto liberista del fronte “repubblicano”, con forse qualche condiscendenza in meno verso gli “investitori internazionali” che pretendono condizioni di favore (ma neanche questo è certo, viste le politiche fiscali adottate dai vari membri del “gruppo di Visegrad”).
Le politiche sociali sono grosso modo identiche, la “guerra ai poveri” accomuna senza problemi gli esponenti nazionali dei due fronti, tanto da renderli indistinguibili (a parte gli insulti reciproci). Dalla casa alle pensioni, dal reddito alle tutele del lavoro, non c’è tema in cui sia possibile riconoscere una differenza “forte”.
L’unico terreno che sembrerebbe distinguere i due schieramenti è quello dell’accoglienza verso i migranti, ma anche in questo caso le differenze reali sono molto minori di quelle sbandierate.
La Germania “europeista” di Angela Merkel (spesso contraddetta dal suo ministro dell’interno Seehofer) ha rapidamente ridotto la propria disponibilità ad accogliere ai soli “dotati di specializzazioni professionali utili” all’economia nazionale.
La Francia “repubblicana” di Macron – il più nazionalista dei sedicenti “europeisti” – si nota più per la durezza usata nei loro confronti (da Calais a Bardonecchia, con annesso sconfinamento in territorio italiano) che per la disponibilità a farli entrare.
In Italia Salvini ha sposato il “modello Minniti”, predecessore ai vertici del Pd, ma sbraita in modo decisamente più sguaiato, senza reali mutamenti sostanziali, coprendosi spesso di ridicolo (“Tripoli è un porto sicuro” le batte tutte…).
La chiusura dei confini è insomma generalizzata e risparmia, per ora, solo i migranti interni, quelli con passaporto Ue che, ricordiamolo, sono sempre e soltanto “migranti economici”, restituibili in qualsiasi momento al paese di provenienza, secondo le dottrine maggiormente in auge.
Dunque quello nazionalista e reazionario è un fronte che immagina “un’altra Europa”, altrettanto feroce sul piano economico e sociale interno, e blindata come una fortezza verso l’esterno. Ma niente affatto “alternativa”; molto poco diversa da quella attuale, insomma, solo con molte “facce nuove” decisamente poco presentabili.
Solo nello scenario italiano esiste un “terzo polo” non chiaramente collocabile in uno dei campi: i Cinque Stelle. La loro idea “strategica” – autodefinirsi “né di destra, né di sinistra” – era poco più di un furbata per cercare di sottrarsi alla classificazioni novecentesche. Ma in questa Unione Europea, attraversata da questo scontro, questa ideuzza non ha nemmeno il terreno dove essere coltivata. Impossibile qualificare Macron o Merkel come “sinistra”, mentre certamente sono “destra” i nazionalisti d’ogni lingua e risma… Fuori dalle chiacchiere sulla “legalità”, insomma, e dentro uno scontro intorno alle caratteristiche future della Ue, appaiono come il più classico dei vasi di coccio in mezzo alle palle da cannone.
A prima vista, dunque, c’è necessità soprattutto di uno schieramento continentale popolare assolutamente indipendente da questi due fronti. Ed è per fortuna in via di formazione, a partire dalla firma della Dichiarazione di Lisbona, che ha visto convergere France Insoumise, Podemos e il portoghese Bloco de Esquerra, nonché l’adesione di Potere al Popolo per l’Italia. In questa direzione sembra andare anche Aufstehen, il movimento tedesco che punta esplicitamente a superare il tradizionale bacino di Die Linke (ma che risente pesantemente del clima anti-immigrati tedesco), oltre a interessanti e niente affatto “minori” gruppi danesi, olandesi, sloveni, ecc.
Tutto bene, dunque? Non proprio… “A sinistra”, in Italia come altrove, sopravvivono – pur deperendo a vista d’occhio – nostalgie di “alleanze di centrosinistra”, mal celate spesso sotto confusissimi appelli ad “allargare” il campo antiliberista fino a comprendere frammenti di ceto politico dispersi e molto ondivaghi, senza radicamento sociale, privo quasi sempre di rappresentatività reale, storicamente disposto a quasi tutto. Una “irresistibile” voglia di pastrocchi che – per oggettiva debolezza numerica e di idee – fin d’ora pare destinata a subire, almeno in parte, la forza gravitazionale della nebulosa invocata da Cacciari (“da Macron a Tsipras).
Come sempre, critichiamo una logica politica, non qualche organizzazione particolare. Sappiamo bene che una “cultura” malamente sopravvissuta per 25 anni è diffusa in molti ambiti e in molte menti, e non può essere superata con un semplice atto di volontà o una “presa di coscienza” fulminea… Ma va superata, pena la scomparsa o la subordinazione definitiva di una soggettività autonoma di classe che abbia l’ambizione di esser riconosciuta “dalle masse”.
Su questo vogliamo perciò essere chiarissimi: noi vogliamo allargare la coalizione sociale antagonista (Potere al Popolo, il sindacalismo conflittuale, i movimenti sociali e territoriali, ecc) radicandola con forza dentro il nostro blocco sociale. Vogliamo crescere come quantità di attivisti e qualità politica organizzando la nostra gente per raggiungere obiettivi concreti, vitali, per migliorare le condizioni di vita e risvegliare il protagonismo sociale.
Per riuscirci abbiamo bisogno di percorrere le strade e tutti i luoghi dove si scontrano interessi di classe opposti; abbiamo bisogno di confrontare proposte e idee davanti a tutti, non di rinchiuderci in qualche sala a contrattare – “manuale Cencelli” alla mano – candidature marginali in cambio di silenzio complice sulle politiche sociali passate, presenti e future.
L’Europa è il teatro dove si gioca la partita, lo andiamo ripetendo da anni. E l’Unione Europea è il potere quasi-statuale che determina le politiche poi applicate all’interno degli Stati nazionali in apparente “autonomia”.
Rompere questa gabbia è la condizione per costruire una diversa comunità di Stati con priorità sociali opposte e alternative a quelle della Ue.
Non c’è futuro, per la nostra gente, né con gli “europeisti” del grande capitale, né con i nazionalisti delle “piccole patrie”. E’ ora di sgombrare il campo dalle cortine fumogene, dagli equivoci interessati e dal “pensiero bipolare” che ha ucciso quella che si autodefiniva “sinistra”.